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Nel piatto dei promessi sposi

La storia della cultura materiale contribuisce in modo significativo alla conoscenza di epoche e fatti. La dominazione spagnola, la peste, la carestia sono gli argomenti che maggiormente vengono in mente quando si parla del romanzo di Manzoni, un romanzo storico che vede come protagonista gli umili, ed anche il Seicento. E, in tema di cibo, uno degli aspetti più significativi della cultura materiale, “I promessi sposi” hanno molto da rivelare. Innanzi tutto è da apprezzare il modo in cui Manzoni affronta i temi della fame e del cibo.  Per la prima volta la fame è denunciata come un problema da approfondire e da risolvere, un dramma che colpisce i poveri che vivono nelle pagine del romanzo e diventa spina dorsale della narrazione ed elemento fondamentale del paesaggio realistico del libro. L’analisi che Manzoni fa della carestia, liquidata nel capitolo quinto da Don Rodrigo e dai suoi commensali con superficialità e boria, coinvolge non soltanto l’aspetto economico e politico ( che rimanda al malgoverno spagnolo), ma anche quello etico: se viene a mancare il cibo, viene meno anche il senso di umanità. E’ un approccio che contraddice il vezzo di trattare il tema con risvolti comici: Arlecchino e Pulcinella, per fare un esempio, sono due maschere tradizionalmente tormentate da una fame atavica che induce non a pietà ma a riso. Manzoni invece fa sul serio e descrive l’assalto ai forni con particolari crudi: si stipa la farina nelle casse, nelle botti, nelle caldaie, per strada si incontrano cadaveri con le bocche piene di erba masticata, l’ultimo pasto prima della morte. Più avanti, nel capitolo ventottesimo, dove si analizzano gli effetti della carestia, compaiono pietanze di pane di riso impastato con orzo, segale e veccia, erbe di prato amare, cortecce d’albero condite con sale e acqua malsana.  Del resto, nel capitolo sesto, il lettore si era già impietosito davanti alla fanciulla scarna che, tenendo per la corda al pascolo la vaccherella magra stecchita, guardava innanzi, e si chinava in fretta a rubarle cibo per la famiglia.  Tuttavia nel romanzo il cibo non è narrato soltanto come privazione: è anche un mezzo per definire realisticamente personaggi e scene, per collocarli storicamente a partire dal quotidiano più elementare e necessario. Cominciamo da Perpetua: quando appare per la prima volta nella narrazione, al secondo capitolo, avanza con un gran cavolo sotto il braccio, un cavolo- verza, si suppone, a ragione, destinato a riempire, si suppone, il piatto, suo e di don Abbondio, in forma di minestra con riso o di cassoeula insaporita con carne di maiale o di pollame, piatto povero ma tuttavia degno della mensa di un curato. Che Perpetua tenesse un pollaio, lo sappiamo dal trentesimo capitolo quando, rientrando con don Abbondio a casa dopo il saccheggio dei lanzichenecchi, lo trova all’aria mentre ovunque sono posate piume e penne. In tema di supposizioni non è da escludere neanche che le foglie di verza, appassite e riempite di un impasto di pane, formaggio e uova, fossero servite, dopo essere rosolate nello strutto, come capù, i capponi, in senso ironico, della mensa degli umili.

E, a proposito di capponi, la mente corre subito ai quattro pennuti a cui Agnese, prima che fossero consegnati a Renzo come dono propiziatorio per Azzeccagarbugli, riunì le loro otto gambe come se facesse un mazzetto di fiori, le avvolse e le strinse con uno spago. E Manzoni si spinge oltre, fino a invitare il lettore a pensare come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie, così legate e tenute per le zampe a capo all'in giù, nella mano di un uomo il quale, agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che gli passavan a tumulto per la mente. (…) e dava loro di fiere scosse, e faceva sbalzare quelle teste spenzolate; le quali intanto s'ingegnavano a beccarsi l'una con l'altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura. Le povere bestie diventano così il simbolo delle vittime impotenti che, in balia delle passioni di qualcuno più forte di loro, invece di aiutarsi si aggrediscono a vicenda. Rifiutate da Azzeccagarbugli vengono gettate da Renzo con noncuranza su tavolo ad arricchire il ruolo di vittime con una cifra che le accomuna ai due promessi, rifiutati prima dal loro curato, poi dall’uomo di legge. Non sappiano se quei quattro capponi siano o no finiti in pentola, di certo lo è quello che, al capitolo ventiquattresimo nella casa del sarto, Lucia sorbisce in forma di brodo da una scodella guarnita di fette di pane e di cui consuma, poco dopo, un’ala lessata. E’ una domenica di festa grande per l’arrivo dell’Arcivescovo di Milano, che improvviserà una visita a Lucia, e la tavola merita il piatto più pregiato. I bambini del sarto, osserva Manzoni, mangiavano ritti attorno alla tavola, era infatti un diffuso costume popolare che, a fronte di famiglie numerose, al tavolo sedessero gli adulti: gli uomini per primi e, se c’era posto, le donne, a partire dalle più anziane. E in piedi stanno anche i bambini in casa di Tonio, al capitolo sesto, in attesa che il padre scodelli la polenta che sta rigirando nel paiolo. Al tavolo sono sedute la moglie di Tonio, la madre e, con loro un fratello. La mole della polenta era in ragion dell'annata, e non del numero e della buona voglia de' commensali: e ognun d'essi, fissando, con uno sguardo bieco d'amor rabbioso, la vivanda comune, pareva pensare alla porzione d'appetito che le doveva sopravvivere. Lo sguardo bieco d’amor rabbioso è un sintomo del degrado indotto dalla fame, condizione che trova il suo contraltare,  dopo che Tonio ha scodellatsulla tafferia di faggio la piccola luna bigia di grano saraceno in un gran cerchio di vapori, nell’invito fatto a Renzo di voler restar servito, complimento che il contadino di Lombardia, e chi sa di quant' altri paesi! non lascia mai di fare a chi lo trovi a mangiare, quand'anche questo fosse un ricco epulone alzatosi allora da tavola, e lui fosse all'ultimo boccone. Renzo ringrazia, rifiuta e invita Tonio a desinare all’osteria , proposta che per Tonio tanto più gradita, quanto meno aspettata; e le donne, e anche i bimbi (giacché, su questa materia, principian presto a ragionare) non videro mal volentieri che si sottraesse alla polenta un concorrente, e il più formidabile. Tonio, dal canto suo,  appreso da Renzo l’inganno ai danni del curato, non vede l’ora di riavere la collana d’oro della moglie, data in pegno, per poterla barattare in tanta polenta. Le pagine del capitol  accennano brevemente anche al menù consumato da Renzo e Tonio all’osteria: i due mangiano, in perfetta solitudine, quel poco che si trovava e bevono un boccale di vino. Più ricco il menù dell’osteria, al settimo capitolo, dove Renzo si reca con Tonio e con Gervaso: polpette accompagnate dalla risposta dell’oste alle domande di Renzo circa i bravi seduti a tavolino “Lazioni, caro mio: l’uomo si conosce alle azioni. Quelli che bevono il vino senza criticarlo, che mostrano sul banco la faccia del re senza taccolare, che non attaccano quistioni con gli altri avventoriese hanno una coltellata da consegnare a uno, lo vanno ad aspettar di fuori e lontano dall'osteria, tanto che il povero oste non ne vada di mezzo, quelli sono i galantuomini. Però, se si può conoscer la gente pulito, come ci conosciamo fra noi quattro, è meglio. E che diavolo vi vien voglia di saper tante cose, quando siete sposo, e dovete aver tutt'altro in testa? e con dinanzi quelle polpette che farebbero risuscitare un morto?” Più ricco ancora il menù della Luna Piena, la locanda dove Renzo approda in compagnia di uno sconosciuto, in realtà uno sbirro. Prima di porre attenzione allo stufato che cuoce in pentola, la descrizione della stanza ci dice che due lumi a mano, pendenti da due pertiche attaccate alla trave del palco, vi spandevano una mezza luce. Molta gente era seduta, non però in ozio, su due panche, di qua e di là d’una tavola stretta e lunga, che teneva quasi tutta una parte della stanza: a intervalli, tovaglie e piatti; a intervalli, carte voltate e rivoltate, dadi buttati e raccolti; fiaschi e bicchieri per tutto. Si vedevano anche correre berlinghe, reali e parpagliole, che, se avessero potuto parlare, avrebbero detto probabilmente: « noi eravamo stamattina nella ciotola d’un fornaio, o nelle tasche di qualche spettatore del tumulto, che tutt’intento a vedere come andassero gli affari pubblici, si dimenticava di vigilar le sue faccendole private ». Il chiasso era grande. Un garzone girava innanzi e in dietro,in fretta e in furia, al servizio di quella tavola insieme e tavoliere: l’oste era a sedere sur una piccola panca, sotto la cappa del cammino, occupato, in apparenza, in certe figure che faceva e disfaceva nella cenere, con le molle. Quanto allo stufato, una pietanza di pezzi di carne in umido, cotti a fuoco lento in un tegame di terracotta ben chiuso,  ha il vantaggio di essere sempre pronto, tenuto in caldo tra le braci: la prolungata cottura gli giova e rende morbida e saporita la carne poco pregiata che ne è l’ingrediente principale. Cotto in un intingolo, lo stufato è un piatto che si mangia con il pane. Renzo lo consumò con il terzo ed ultimo dei pani raccolti sotto la croce di San Dionigi, chealzò per aria, gridando-ecco il pane della provvidenza! La cena fu accompagnata da un paio di fiaschi di vino. Scampato all’arresto, Renzo approda infine, più mitemente,  alla casuccia solitaria di una vecchia , segnalata da una frasca, dove consuma stracchino e rifiuta il vino e, infine, all’osteria di Gorgonzola dove si limita a trinciare una pietanza e a bere una mezzetta. Il vino è una bevanda ricorrente che, al capitolo quinto, consuma anche fra’ Cristoforo, sorbendolo lentamente da un lungo bicchiero a forma di calice, con l’inutile intento di farsi propizio don Rodrigo. 

Al capitolo ventunesimo lo troviamo buono, di quello che il padrone beve con gli amici, annoverato accanto alle squisitezze che riempiono il paniere inviato dall’Innominato a Lucia che non se ne giova affatto. Il vino era, al pari del caffè, assai gradito anche a Manzoni che sembra si fosse fatto realizzare un bicchiere piuttosto grande, in modo che, se qualcuno lo avesse accusato di aver bevuto troppo, poteva rispondere di aver bevuto solo due bicchieri. Del resto è risaputo che Lisander era goloso di dolci e di cioccolata, bevanda, quest’ultima che, al capitolo decimo, viene offerta a Gertrude, seduta su una sedia a braccioli e in partenza per Monza, per ordine dei genitori “il che, a que’ tempi, era quel che già presso i Romani il dare la veste virile”. La chicchera di cioccolata, un ulteriore elemento per forzare la volontà della fanciulla e piegarla ai piani paterni. Passando oltre: non mancano, nel piatto de I promessi, al trentatreesimo capitolo, ne’ la carne secca, ne’ i raveggioli, serviti da un amico a Renzo, tornato in paese, assieme a una polenta di grano saraceno, a un po’ di latte e a fichi e pesche, fresche come le frutta del capitolo diciannovesimo, chiamate a designare la fine di un pranzo dove gli invitati-clienti del conte zio dalla minestra in giù non avevano fatto che assentire. E sempre quanto a frutta, secca stavolta,come non ricordare le noci a bizzeffe di fra’ Galdino? Il pane infine, sperperato e raccolto durante l’assalto al Forno delle Grucce, si sublima in quello del perdono che fra’ Cristoforo riceve dal gentiluomo, fratello della sua vittima, e che torna alla ribalta quasi a fine romanzo, al capitolo trentaseiesimo. Dopo aver sciolto il voto, togliendo dalla sporta una scatola di legno ordinario, ma tornita e lustrata con una certa finitezza cappuccinesca,  il frate la consegna a Renzo e a Lucia con queste parole:”Qui dentro c’è il resto di quel pane ….il primo che ho chiesto per carità; quel pane, di cui avete sentito parlare! Lo lascio a voi altri. Serbatelo; fatelo vedere ai vostri figliuoli. Verranno in un tristo mondo, e in tristi tempi, in mezzo a’ superbi e a’ provocatori: dite loro che perdonino sempre, sempre! tutto, tutto! E che preghino, anche loro, per il povero frate!” Il pane, il cibo per antonomasia, il pane quotidiano della preghiera al Padre, cibo del corpo e dell’anima, riabilita, nell’indissolubile legame col perdono stabilito dal frate, la mancanza e lo sperpero che ne hanno fatto, e ne faranno, uomini in preda a bisogni e passioni ed altri uomini incapaci di governo.

 

Anna Guidi

 

Commenti

08-03-2020 - 19:03:13
Gian Luca Giannotti

Menù, quelli accennati e descritti, che, rivisitati, si possono apprezzare tuttora nei ristoranti tipici della Brianza e dintorni. Del romanzo, letto alle medie e all'ITI e visto in televisione a puntate (con Paola Pitagora e Nino Castelnuovo nei ruoli di Lucia e di Renzo) ricordavo bene la carestia, le noci di fra' Galdino, il pane del perdono e la polenta di grano saraceno di Tonio. Il resto lo scopro grazie a questa lettura. Anche i raveggioli e lo stracchino!

08-03-2020 - 21:03:20
Olga Tartarelli

Un importante aspetto dei Promessi Sposi poco conosciuto, utilissimo a definire il clima di un'epoca e di una tragedia mai finita: la fame, sofferta ancor oggi da molte popolazioni. Da apprezzare i semplici menu' che affiorano e conquistano: stufato, polenta, stracchino, raveggioli, polpette.... ed il clima delle taverne. da manuale di sociologia e psicologia!!!
Anna preparati a fare questa conferenza a Pietrasanta, al Cowork Versilia passata la sgradevole situazione attuale.
e continua a scrivere, grazie

08-03-2020 - 21:03:30
Olga Tartarelli

Un importante aspetto dei Promessi Sposi poco conosciuto, utilissimo a definire il clima di un'epoca e di una tragedia mai finita: la fame, sofferta ancor oggi da molte popolazioni. Da apprezzare i semplici menu' che affiorano e conquistano: stufato, polenta, stracchino, raveggioli, polpette.... ed il clima delle taverne. da manuale di sociologia!!!
Anna preparati a fare questa conferenza a Pietrasanta, al Cowork Versilia passata la sgradevole situazione attuale.
e continua a scrivere, grazie

09-03-2020 - 13:03:45
Matteo Varisco

Complimenti Anna per l'articolo, da ex-cuoco e nato a Monza, in quello che hai scritto ho rivisto molti dei piatti della tradizione brianzola come la cassoeula, o il fatto di servire in tavola il vassoio dei formaggi che non mancavano mai anche dopo un pranzo completo (stracchino, fontina, taleggio, grana padano, ecc.), come faceva mia nonna, cresciuta letteralmente all'ombra delle torre Teodolinda (il campanile del duomo di Monza).

Il trasporto a testa in giù dei capponi ancora vivi, benché fosse crudele, era un'esigenza dovuta al fatto che non c'era modo di conservare la carne a lungo se non facendo restare in vita l'animale fino alla consegna, come ho avuto modo di leggere nel libro "La civiltà della forchetta" di Giovanni Rebora, dedicato alla storia del cibo e della cucina italiana e europea.

Sempre sullo stesso libro ho scoperto che per i contadini un coniglio ad esempio valeva più per la sua pelliccia, le ossa con cui si faceva la colla e i tendini, che per la carne da mangiare, dato che questa era facilmente deperibile e che potevano comprare solo i signori più facoltosi che stavano nelle città, quindi comportava un viaggio fino ai mercati rionali per la vendita.

09-03-2020 - 15:03:06
Marco Lapi

Grazie Anna per questo bellissimo contributo. Il tema della cucina in letteratura mi appassiona da un po' e c'è sempre qualcosa di nuovo da scoprire, anche in un testo antico, masticato magari malamente ai tempi della scuola come i Promessi Sposi. Ma per te che lo hai riproposto per tanto tempo di anno in anno è stato possibile e magari anche divertente scoprire tra le pagine anche questi aspetti solo apparentemente secondari.
Di letteratura in cucina si sono occupati qualche anno fa anche i Thè di Toscana Oggi fiorentini, con cene a tema a cominciare da Pinocchio... evitando ovviamente di servire tutte le portate che si sbafarono il Gatto e la Volpe all'Osteria del Gambero Rosso. Personalmente, da cultore di gialli, sono stato attratto dai riferimenti culinari di cui questo genere letterario è incredibilmente ricco, dai piatti raffinati del corpulento Nero Wolfe al coq au vin e non solo della signora Maigret. Negli ultimi anni il compianto Andrea Camilleri ci ha idealmente deliziato con le prelibatezze siciliane di cui va ghiotto il suo commissario Montalbano, cognome che non è altro che un omaggio a Manuel Vázquez Montalbán, creatore del personaggio di Pepe Carvalho, quasi più gourmet che investigatore privato. Fino ad arrivare all'antieroe Rocco Schiavone che, oltre a spiegarci il vero significato di "sticazzi", espressione usata a sproposito al di fuori di Roma, a margine di un primo cacio e pepe con gli amici c'insegna che i tramezzini vanno tenuti nel tovagliolo umidi e non nel cellofan, come si usa fare da noi... L'autore? Antonio Manzini, che in questo contesto appare quasi un diminutivo rispetto all'accrescitivo Manzoni. Con il manzo come termine base, e si ritorna al cibo... ma è meglio non vada oltre nelle divagazioni, sennò finisce tutto in vacca!

02-04-2020 - 11:04:00
Melania Spampinato

Anna,
semplicemente geniale il tuo introdurci in questa inusuale analisi umano-culinaria, attraverso la lettura di alcuni passi memorabili dei Promessi Sposi.
Brava, come sempre!

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