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La Chioccia e la Fornace, Azzano fra leggenda e realtà

Azzano di Seravezza, provincia di Lucca, nelle Apuane, si distende sulle pendici Cavallo, si staglia contro l'Altissimo, si contrappone alle cime del Carchio.

Nelle pieghe dei castagneti si individuano i ruderi di Curiceta o Culiceta o Casali, un antico insediamento in binomio con Azzano. Ben visibile fra i resti un trono scolpito nella in pietra, mentre la leggenda tramanda di una gallina d'oro sepolta con una preziosa covata di dodici pulcini, ancora da disseppellire. Tale tipologia di oreficeria rimanda, unitamente alla dedicazione dell'oratorio a San Michele Arcangelo, alla dominazione dei Longobardi che amavano riprodurre animali e veneravano il Santo guerriero psicopompo, tanto simile ad Odino.

Fra le varie ipotesi etimologiche di Azzano, accanto ad una derivazione dal nome proprio Accius o Actius, accreditato in riferimento ai toponimi circostanti di Fabbiano, Giustagnana, Minazzana, si ipotizza anche una discendenza dal longobardo Zain(j)a, cesta, da cui l'italiano zaino. Azzano, per inciso, è legato dal 1987 a tutti gli Azzano d'Italia da un gemellaggio che ricalca, nell'estensione territoriale, l'espansione dei Longobardi nella penisola. Non possiamo trascurare, infine, in tema di etimologie, l' ”uno sano”.....assano.. Azzano, che celebra il fortunato eroe, unico scampato dal bombardamento con cannoni di legno a cui Curicetra fu sottoposta nel Trecento da Castruccio Castracani. Il favoleggiare si mescola alle regole dell'analisi linguistica e mette in campo suggestivi improbabili scenari.

Incontrovertibile invece è che nel ”pendant” Curiceta – Azzano, diversamente da quanto è accaduto in Versilia per il binomio Terrinca-Levigliani e Pruno-Volegno, uno dei due villaggi è stato abbandonato, Curiceta, in posizione più algida e forse proprio per questo motivo.

Curiceta, i Casali per gli azzanesi, fa invece “pendant” nell'immaginario collettivo del paese con la leggenda plutonica della Chioccia d'oro che rimanda a sua volta a molteplici contesti.

In primis alla “Pitta teodolindea”, conservata insieme alla “Corona ferrea” nel Museo del Duomo di Monza, raffigurante una chioccia e sette pulcini intenti a beccare dal suolo. Pitta o pita equivale a “gallina”, termine di derivazione onomatopeica che allude al picchiettare il terreno in cerca di vermi e semi, mentre il proverbio raccomanda: “Fa nijnta la pita, non fare la chioccia”. In merito ai sette pulcini, tanti ne contiamo adesso, è da riferire che Paolo Morigia nella sua “Historia dell'antichità di Milano” (1592) asserisce che questa gallina con corteggio di dodici pulcini, (numero identico a quello della leggenda dei Casali), è opera commissionata dalla regina Teodolinda e risalirebbe al VI-VII secolo. Altri sostengono che la manifattura denunci una lavorazione bizantina o magnogreca, suffragata dal fatto che la gemma dell'occhio sinistro presenta incisa la figura di un guerriero, prodotto alessandrino del II-IV secolo, castone di un anello o sigillo.

I longobardi, che occuparono la Manduria tarantina, inglobata nel Ducato di Benevento, si sarebbero appropriati della preziosa oreficieria trasferendola a Monza. La tradizione in Manduria vuole che il tesoro, sepolto in un pozzo, possa essere rinvenuto sacrificando sull'orlo un bambino o una bambina di non più di cinque anni, secondo altra versione il recupero sarebbe reso possibile facendo sedere vicino alla fonte una donna gravida che tenga sul ventre nudo una serpe.

Note di crudeltà che si ripropongono, più sfumate, anche a Montepulciano dove il proverbio recita: ”Tra Totona e Totonella c'é la tomba del re Porsenna, tra Totona e Cappuccini c'é la Chioccia coi Pulcini”.

La gallina in questione, satolla e tempesta di gemme, a luna piena esce allo scoperto assieme alla covata d'oro che mai l'abbandona, ma nessuno riesce a catturare il tesoro perché la chioccia mena feroci beccate.

Quanto alla più domestica pitta teodolindea vale la pena di gustare la descrizione di tanta preziosità: chioccia e suolo, rappresentato dal vassoio che sostiene il gruppo, sono in lamina di argento dorato, la chioccia su anima di legno con gemme, vetri ed intaglio in sardonica.

La lavorazione a sbalzo con rifiniture a bulino e punzone, la cresta doppia incastrata in una fessura della testa e le zampe modellate a parte certificano una squisita perizia. I sette pulcini, rappresentazione delle Pleiadi per alcuni, per altri dei sette ducati di Lombardia, sono frutto di fusione, rubini e smeraldi incastonati nelle orbite fungono da occhi per chioccia e pulcini.

Non mancano, nelle interpretazioni delle leggende sull'aureo avicolo, richiami all'immagine dei dodici apostoli raccolti attorno a Cristo. Il Vangelo offre uno spunto in Luca 13,31-35 laddove leggiamo che Gesù esclama: “Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te: quante volte ho dovuto raccogliere i tuoi figli, come la chioccia i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto”. Il concetto di Dio che raccoglie le creature sotto le proprie ali lo troviamo anche nel salmo 36 : “O Dio, com'è preziosa la tua benevolenza! Perciò i figli degli uomini cercano rifiugio all'ombra delle tue ali.”

E' una ricerca di protezione che fa appello alla bontà divina, senza declinazioni ed attributi.

Nei versetti di Luca invece con il ricorso alla figura della chioccia, che covando con calore, pazienza ed attenzione permette di nascere al pulcino, è evidenziata la dimensione materna dell'amore di Dio, accudimento che non si esaurisce alla schiusa ma accompagna fino alla conquista dell'autonomia. Ed è sempre alla chioccia-madre, recuperando il riferiemento alle Pleiadi, questa volta in chiave di nostalgico richiamo, che Pascoli dedica i famosi versi ne “Il gelsomino notturno”: La chioccetta per l'aia azzurra va col suo pigolio di stelle...” con la dolcezza delle parole del poeta-orfano ci allontaniamo dai Casali per appuntare l'attenzione sulla concretezza della fornace, segnata al momento dal crollo di una parte del muro, ma in dritta di restauro.

L'analisi del contesto in cui si colloca il manufatto induce subito a trattare un altro aspetto dell'organizzazione del paesaggio: quello del “doppio villaggio”, elemento costante nelle Apuane e nell'areale alpino in genere, che vede strutturarsi nell'alpeggio in quota, alla Croce in questo caso, attività di pastorizia non praticabili intorno al paese per l'assenza di prati e la presenza di orti.

Lo specifico della Croce è che, alla transumanza estiva si affianca, una volta consolidatesi le attività in cava, la possibilità di allevare stabilmente in quota anche animali di piccola taglia, conigli ad esempio, che i cavatori in transito accudivano all'andata e al ritorno dal monte.

La fornace è sicuramente legata all'alpeggio della Croce a cui riforniva materiale per costruire le numerose abitazioni e stalle.

La calchera infatti si trova in alto rispetto al paese, a 760 slm sul sentiero Cai 31 che muove dalla piazza di san Michele (445 slm) e si dirige verso il Pizzo di Falcovaia (1287 slm). Poco prima, sulla destra, si incrocia appunto il sentiero che scende alla Croce e, sempre da destra, si innesta sul sentiero 31 la mulattiera che proviene da Minazzana. La viabilità è un elemento importante per individuare il luogo dove edificare la calcara: favorisce il trasporto dei sassi da cuocere e la distribuzione della calce prodotta. Nel nostro caso ben tre percorsi rendevano agevole il commercio: uno breve diretto all'Alpe e due più lunghi ai paesi. Un secondo elemento era la vicinanza di corsi d'acqua, torrenti e ruscelli nel cui greto raccogliere le pietre calcaree, necessari anche ad alimentare la pozza dove spegnere la calce viva. Salendo da Azzano ne troviamo, prima di raggungere la fornace, due: un piccolo canale sormontato da un ponticello di pietra e un secondo che scende verso il Botro di Rimone che si versa nel Serra; poco più avanti ecco una fonte ed ancora un'altra zona umida. Il terzo elemento era la presenza di legna: ne occorrevano quintali per raggiungere e mantenere per sei-sette giorni la temperatura di 800-1000 ° necessaria a cuocere i sassi. Boschi attorno alla nostra fornace non ne mancavano ne' mancano, coltivati un tempo, abbandonati a se stessi oggi. Le operazioni di mantenimento del fuoco erano seguite da almeno quattro addetti e guidate dall'esperto forniciaio. Per verificare lo stato di cottura si buttava un sasso nell'acqua fredda scatenando una tumultuosa e pericolosa reazione oppure lo si forava con un punteruolo di ferro, se penetrava la calce era pronta per essere estratta dal forno, attività che richiedeva molta perizia ed attenzione. I sassi, trasformati in calce viva, erano gettati in una fossa scavata nel terreno ed irrorata d'acqua. La calce spenta era pronta per essere utilizzata per malte ed intonaci: la malta per tenere assieme i sassi, gli intonaci per rinforzare la funzione di muri ai quali, se imbiancati a calce, era garantita la disinfezione: epidemie e fuliggine non mancavano mai. Da evidenzaire come tutta l'operazione fosse resa possibile grazie al fenomeno carsico, diffuso nelle Apuane, che assicurava (ed assicura ancora, benchè sia venuta meno la destinazione fornace) la presenza nelle pietre di carbonato di calcio destinato a dissociarsi in ossido e biossido di carbonio; a contatto con l'acqua grazie ad una reazione esotermica, si formava il prezioso materiale.

La calchera di Azzano, assai distante dagli abitati per motivi di sicurezza, era a funzionamento intermittente, “in muratura” quanto a tipologia (“a fossa” o “ a catasta” le altre ), in parte interrata come di solito, mantiene ancora la forma di nuraghe, ben visibile nonostante i rimaneggiamenti che l'hanno trasformata, negli anni cinquanta, in metato. Racconta Oreste Folini che il suocero Celestino Mazzucchelli adeguò la calcara dismessa ad ambiente per seccare le castagne profittando del tempo a disposizione a seguito degli scioperi con cui i cavatori nel 1952/3 intendevano scongiurare l'allungamento dell'orario di lavoro. I circostanti boschi di castagni e l'abitudine di raccogliere fino all'ultimo frutto giustificavano pienamente l'impresa.

Il tetto di piastre a due spioventi copre un perimetro murario rialzato per ottenere lo spazio metato, la parte sottostante utilizzata come stalla e rimessaggio dopo la dismissione, conteneva la volta di separazione, costruita ad ogni cottura con pietre calacaree opportunamente squadrate, la sua funzione era sostenere il carico di sassi destinato alla combustione e compiere la stessa metamorfosi, in alto, dopo il restringimento della forma botte, la coppella di copertura era coperta di malta e provvista di sfiato.

Le due finestrelle e la porta aperte successivamente nella costruzione non facevano parte della struttura originaria che, oltre allo sfiato già rammentato, annoverava: l'ingresso per le pietre destinato ad essere murato dopo il carico, il foro di aspirazione per garantire l'ossigenazione e la bocca del fornello in cui durante il processo di cottura si introducevano fascine in crescendo (dal primo al sesto- settimo giorno in ragione di una ogni dieci minuti da principio per salire fino alle otto per lo stesso lasso di tempo).

Quanto alla cenere veniva raccolta ogni mezz'ora, mentre a due o tre giorni dallo spegnimento, dopo il prelievo del materiale, si demolivano il muro di chiusura dell'ingresso e la cupola. Era abitudine delle famiglie conservare in buche presso le abitazioni o negli scantinati sassi cotti da utilizzare sbriciolandoli per piccoli lavori di manutenzione e, se per imbiancature, mescolando la calce con collanti quali, ad esempio, una miscela di latte e zucchero.

La presenza della fornace, anzi delle fornaci dato che nella valle del Serra, poco sopra il Ponte di Rimone, sopravvivono i resti di una di notevole di notevole ampiezza, testimonia un'organizzazione economica indirizzata all'autosufficenza, in un sistema di produzione e consumo attento a tutti i bisogni. Dalla relazione del perito Patrizio Botti, stesa il 20 novembre 1820 per la costruzione della strada del Borrini, documento conservato nell'Archivio Henraux di Querceta ( collocazione XIII-33) si apprende che una fornace di calcina, destinata ad essere demolita in parte, si trovava nei pressi della Desiata, mentre quella chiamata del Martini era in zona Collacci. La fornace del Ponte di Rimone ha sostituito dunque, una volta aperta la strada, quella della Desiata.

L'attività del fornaciaio era importantissima almeno fino ai primi decenni del Novecento e rimanda, al pari di quella degli addetti per numerose corrispondenze al lavoro del carbonaro per perizia, contesto ambientale, fornitura di beni essenziali: casa e calore. Sorpassate e rese obsolete dal progresso, fornace e carbonaia tramandano, se sappiamo leggere ruderi e piazzole nel bosco, saperi e soluzioni che hanno ancora e sempre senso e valore. Alla favolosa leggenda dell chioccia d'oro col suo corteggio di pigolante prole tocca alimentare, nelle pieghe della filosofica creatività, il convincimento che il tesoro è il contenitore, la comunanza del paese che fu ed è più a valle, scoprendo che cercandolo esso è già fra le nostre mani.  

Anna Guidi

Commenti

19-10-2017 - 06:10:25
D'Angiolo Giulio

ANNA, Azzano ha una lunga e bella storia. Continua a cercare e scrivine. P.S continua anche se a qualcuno da fastidio, il tuo paese e fiero di te, ti ringrazia.

19-10-2017 - 13:10:08
Matteo Ceretti

Mi piace

19-10-2017 - 13:10:45
Francè

Bei frammenti di storia da conservare e valorizzare! Bravi!

19-10-2017 - 20:10:24
Martina D.

Molto interessante! Complimenti Anna.

19-10-2017 - 20:10:31
Jonathan tarabella

I miei complimenti Anna.... Wow

19-10-2017 - 20:10:55
Letizia D.

Una cultura senza fine, complimenti Anna!

19-10-2017 - 22:10:22
Sergio G.

Mi piace .....complimenti

19-10-2017 - 22:10:47
Cristina T.

Complimenti

20-10-2017 - 15:10:00
Pietro Mori

Interessante e approfondita ricerca storico-culturale, ricca di particolari anche " inediti" riguardanti la storia e la tradizione della comunità azzanese. Un lavoro così ben fatto potrebbe e dovrebbe essere uno stimolo in più, per chi ne ha autorità e competenza, nel promuovere azioni di recupero e conservazione di quei siti e manufatti lasciati oggi, in gran parte, in stato di incuria e abbandono.

21-10-2017 - 06:10:27
Giuliana D'Angiolo

Molto interessante. La solerzia, la cura e il rispetto che i nostri nonni mettevano nello svolgere i loro mestieri fa impallidire qualsiasi lavoratore moderno. Complimenti e grazie per farci ricordare come eravamo.

23-10-2017 - 12:10:07
Viola Bonelli

Argomento molto interessante

23-10-2017 - 13:10:18
Rebecca Bachechi

A mio parere è un argomento molto istruttivo e ben spiegato, grazie mille prof.

23-10-2017 - 13:10:37
Roidi Ginevra

Veramente interessante. Ne abbiamo parlato oggi in classe,non sapevo dell'esistenza di queste Fornace. Grazie prof.

23-10-2017 - 13:10:47
Giulia Munno

Argomento molto interessante e ricco di particolare. Grazie Prof.

23-10-2017 - 13:10:57
Alessia Barotti

Argomento molto profondo e dettagliato.
Grazie tante prof

11-11-2017 - 20:11:30
Andrea sigali

Una bella storia che include una simbologia di matrice astrologica e legata ai culti solari del passato. La chioccia forse identifica la madre terra e i dodici pulcini sono invece le dodici costellazioni, i dodici mesi dell anno, le dodici case dello zodiaco. Parallelamente abbiamo i dodici apostoli. Da uno studio che avevo fatto ricordo che ci fu una donazione di una chioccia di questo genere ai malaspina forse ,e dico forse ( dovrei ricercarlo), da parte del vescovo di luni che era in contesa con i malaspina e con i quali si appacifico nel periodo in cui dante alighieri si recò presso gli stessi malaspina. Dovrei verificarlo per non dire delle eresie

11-11-2017 - 21:11:38
Lucia G.

Grazie per tenere vive le nostre radici

19-11-2017 - 16:11:39
Olga Tartarelli

Abbiamo visto, domenica scorsa, la fornace dell'Alpe della Grotta, testimonianza di un modo di vivere tramontato. La conoscenza storica da' senso a tracce, a manufatti, a reperti. Li rimette in vita e ci consegna la vita che fu, per un attimo lungo quanto il nostro sapere. In questo la storia è maestra di vita.

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