Per ogni cosa c'è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.
C'è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.
Un tempo per uccidere e un tempo per guarire,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.
Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per gemere e un tempo per ballare.
Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.
Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per serbare e un tempo per buttar via.
Un tempo per stracciare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.
Un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace.
Ecclesiaste 3, 1-8
E’ primavera ed è tempo di rogazioni: mai come adesso, dove la tradizione continua, la sequenza liturgica che le accompagna risuonerebbe di estrema attualità: A peste, fame, et bello - libera nos, Domine… E’ dal coronavirus, la peste del momento, che vorremmo essere liberati e dalle sue conseguenze. La giaculatoria riporta alla mente ancestrali paure, conosciute e filtrate da pagine letterarie o da esperienze autobiografiche: la spagnola, ad esempio, nella mia famiglia , si portò via il bisnonno Antonio Lariucci, quarantaquattrenne. Era il 1918 ed era sopravvissuto alla guerra. Mia nonna Alaide aveva quattordici anni, crebbe da povera orfana, come le sorelle e il fratello, e vestì sempre a lutto. Quell’epidemia mieteva le sue vittime fra giovani e adulti validi, invece pare che il Covis 19 preferisca anziani e vecchi, risparmiando tuttavia gli ultranovantenni. Spettatori, vittime potenziali o operativi attivi, siamo tutti coinvolti e a tutti è chiesto di riconvertire abitudini, modalità, pensieri, processo non facile né lineare per la radicata convinzione che la scienza medica sia in grado di controllare i virus. Preso atto che così non è, ognuno attiva le proprie risorse per fronteggiare l’emergenza, per maturare nuove procedure di confronto col reale. La letteratura, soprattutto se la si è maneggiata per tutta la vita, soccorre ed è di aiuto. Le pagine tradotte, parafrasate, studiate e spiegate si fanno strumenti per confronti con il già vissuto di popolazioni antichissime e di lontanissimi nostri antenati. Chi ne ha scritto è stato, eccezion fatta per Lucrezio, spettatore e protagonista, leggerle adesso che condividiamo la condizione, fa la differenza. Cominciamo dall’Apocalisse, scenario non di rado evocato nell’urto col morbo.” Ed ecco un cavallo di color pallido-livido, e colui che lo cavalcava si chiamava Morte, e gli teneva dietro l’Inferno, e gli fu data potestà sopra le quattro parti della terra per uccidere colla spada, colla fame, colla mortalità e con le bestie feroci». Il quarto dei sette sigilli dall’Apocalisse ( 6, 7-8) introduce il tema della mortalità, della morte per epidemia, simultanea, collettiva, in apparenza inspiegabile. Il livido pallore del cavallo evoca la grande tela in mostra a Palermo. Per leggerne i dettagli ci vogliono ore. Il Trionfo della morte, quando a Palermo Palazzo Sclafani divenne l’Ospedale Nuovo, fu di monito per la salvezza eterna a migliaia di ammalati, la memoria di quegli sguardi sofferenti, atterriti, spenti o sollevati, ci porta dentro la cronaca e l’arte si fa palpitante racconto.
LE CAUSE E LA PROVENIENZA Di fronte ad ogni flagello, da sempre, ci chiediamo il perché, indaghiamo le cause, anche nella speranza di trovare rimedi. La risposta non manca nei testi dove ricorrono i temi della colpa e e del castigo. A partire dalla Bibbia, nel secondo libro di Samuele (24, 15) si legge che la peste che colpì Israele ebbe origine da una punizione invocata da Davide, il flagello mandato dall’Eterno fu tremendo “in Israele, da quella mattina fino al tempo fissato; da Dan a Beer-Sheba morirono settantamila persone del popolo”. A questo punto l’Eterno, pentendosi della calamità inflitta, fermò la mano che l’angelo stendeva su Gerusalemme e nello stesso momento Davide, poiché suo era il peccato, chiese che la punizione toccasse soltanto lui e .la sua famiglia. Il tema della colpa non è invece accolto da Tucidide che, a proposito della grande peste che colpì Atene nel 430 a.C., dopo aver descritto l’iter del contagio, individua i responsabili nei Peloponnesi “ A quanto si dice, comparve per la prima volta in Etiopia al di là dell’Egitto, calò poi nell’Egitto e in Libia e si diffuse in quasi tutti i domini del re. Su Atene si abbatté fulmineo, attaccando per primi gli abitanti del Pireo. Cosicché si mormorava che ne sarebbero stati colpevoli i Peloponnesi, con l’inquinare le cisterne d’acqua piovana mediante veleno: s’era ancora sprovvisti d’acqua di fonte, laggiù al Pireo.” In corso di guerra, l’epidemia sarebbe dunque stata provocata dai nemici per stroncare l’avversario, supposto da ascrivere a dinamiche umani, procedura che tuttavia non trova riscontro nei poemi omerici. Infatti, nel primo libro dell’Iliade l’indovino Calcante annuncia agli Achei che, per fermare la peste inviata da Apollo, Agamennone avrebbe dovuto restituire a Crise, sacerdote del dio, la figlia Criseide. L’epidemia come punizione è dunque un concetto trasversale che connota diverse culture . Non ultimo, Boccaccio, nel Decamerone ( Introduzione alla prima giornata), propone il tema del come alternativa ad un’altra causa, possibile ed imperscrutabile: l’influenza degli astri, Saturno contro, insomma “Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera Incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre ad ogni altra italica nobilissima, pervenne la mortifera pestilenza, la quale o per operazione de’ corpi superiori celesti o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’innumerabile quantità di viventi avendo private, senza ristare, d’un luogo in un altro continuandosi, verso l’occidente miserabilmente s’era ampliata”. Boccaccio ammette che, in concomitanza con quanto affermato nel libro di Samuele e nell’Iliade, una causa possa essere individuata nell’espiazione Se Boccaccio chiama direttamente in causa gli astri al cinquanta per cento, Manzoni, nel capitolo XXXII, riferisce che alcuni “Vedevano, la più parte di loro, l’annunzio e la ragione insieme de’ guai in una cometa apparsa l’anno 1628, e in una congiunzione di Saturno con Giove, “inclinando,” scrive il Tadino, “la congiontione sodetta sopra questo anno 1630, tanto chiara, che ciascun la poteua intendere. Mortales parat morbos, miranda videntur. ” Questa predizione, cavata, dicevano, da un libro intitolato Specchio degli almanacchi perfetti, stampato in Torino, nel 1623, correva per le bocche di tutti. Un’altra cometa, apparsa nel giugno dell’anno stesso della peste, si prese per un nuovo avviso; anzi per una prova manifesta dell’unzioni. Pescavan ne’ libri, e pur troppo ne trovavano in quantità, esempi di peste, come dicevano, manufatta: citavano Livio, Tacito, Dione, che dico? Omero e Ovidio, i molti altri antichi che hanno raccontati o accennati fatti somiglianti: di moderni ne avevano ancor più in abbondanza. Citavano cent’altri autori che hanno trattato dottrinalmente, o parlato incidentemente di veleni, di malìe, d’unti, di polveri: il Cesalpino, il Cardano, il Grevino, il Salio, il Pareo, lo Schenchio, lo Zachia e, per finirla, quel funesto Delrio, il quale, se la rinomanza degli autori fosse in ragione del bene e del male prodotto dalle loro opere, dovrebb’essere uno de’ più famosi; quel Delrio, le cui veglie costaron la vita a più uomini che l’imprese di qualche conquistatore: quel Delrio, le cui Disquisizioni Magiche (il ristretto di tutto ciò che gli uomini avevano, fino a’ suoi tempi, sognato in quella materia), divenute il testo più autorevole, più irrefragabile, furono, per più d’un secolo, norma e impulso potente di legali, orribili, non interrotte carnificine. Da’ trovati del volgo, la gente istruita prendeva ciò che si poteva accomodar con le sue idee; da’ trovati della gente istruita, il volgo prendeva ciò che ne poteva intendere, e come lo poteva; e di tutto si formava una massa enorme e confusa di pubblica follia.”Manzoni, e qui è l’illuminista che parla e giudica, prosegue nel dire che ciò che meraviglia è vedere i medici, Tadino compreso, cavare argomento certo dell’unzioni venefiche e malefiche. Parrebbe che l’unico a dubitare fosse il Cardinal Federigo Borromeo ma, tanto di cappello al Manzoni storico che non fuorviato da inclinazioni e simpatie, si vede costretto ad ammettere che l’opinione comune influenzò anche le menti più nobili: il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto per paura del senso comune. Il Borromeo , dunque, vittima del senso comune, che si fondava su ignoranza e superstizione e aveva dalla sua anche la legge, scrisse nel saggio Della pestilenza che fece grande strage a Milano nell’anno 1630 che alcune opinioni sulla composizione degli unguenti in vari luoghi, gli sembrano vere. E vi credette pure il Gran Cancelliere che informò il governatore di Milano di aver attivato una spedizione, andata fallita negli esiti, per raccogliere le prove che in una casa di campagna i fratelli Girolamo e Giulio Monti, gentiluomini milanesi, componevano veleno in grande quantità. La teoria degli untori nasce da una scarsa fiducia nel genere umano, in conseguenza, anche, di carenza di informazioni scientifiche. Che ratti e pulci fossero i veri untori non fu compreso. Si credette invece, per tutto il Medioevo alla teoria degli ebrei untori e divenne pratica comune l’uccisione di un paio di ebrei a conclusione del rito dei flagellanti: trentatré giorni di corale fustigazione per implorare il perdono divino. Non manca nemmeno al presente, la ricerca di untori, fioriscono le teorie del virus creato in laboratorio per sfoltire la popolazione, per mettere in ginocchio l’economia e preparare il terreno a nuove regie del mercato. Se per la peste del 1630 furono i i lanzichenecchi ad essere individuati come veicoli di diffusione, e del resto al tempo e prima e erano soprattutto gli eserciti a spostarsi, oggi le merci e le persone, Boccaccio, per la pandemia di metà Trecento indica che il morbo provenne dall’Oriente, esattamente come oggi: il primo grande focolaio è scoppiato in gennaio a Wuhan, in Cina. E che dalla Cina, poi mutato negli stati Uniti, provenisse la spagnola, poi dilagata in tutto in modo nella primavera del 1918, fu convinto il virologo Claude Hannouh che come il collega John Oxford vide nei campi e negli ospedali militari la causa dell’esplosione del virus respiratorio che provocò unimmane flagello che colpiva le persone giovani e sane: da venticinque a cinquanta milioni i morti stimati, in tre ondate spalmate su due anni. La Spagna se ne vide attribuita erroneamente la maternità, in quanto, non avendo preso parte al conflitto, era esente da censure e vincoli diplomatici per cui rese noti fin da subito casi e numeri, cosa che non fecero ipaesi belligeranti. La reticenza a divulgare informazioni e numeri si spiegava anche con fattori di ordine ideologico: si preferiva che i decessi per quella che fu a lungo considerata, sbagliando, un’influenza batterica, rientrassero nella celebrazione del lutto privato; l’attenzione pubblica, la manifestazione del lutto corale, andava riservata alle vittime del conflitto, agli eroi della patria. Infine restava difficile alla scienza medica, orgogliosa dei successi raggiunti, riconoscere i propri limiti. Il peccato di onnipotenza è sempre in agguato, a cominciare da Adamo ed Eva e giù fino ad oggi. E sempre dall’Oriente vennero l’epidemia del 1947 e la più tremenda asiatica del 1957, che la scrivente ha contratto e ne serba memoria. L’asiatica colpiva tutti, tranne gli ultra settantenni, mentre l’influenza virale del 1977, quella più famosa dopo la Hong Kong del 1968, mietette le sue vittime fra i giovanissimi, esattamente fra minori di venticinque anni. Oscuri ancora i motivi delle selezioni fatte dai virus in base all’età. Infine, nel 2009, tenne scena la suina che ricordo per la lunga sosta di cinque ore nella notte, in viaggio di istruzione con la scuola, alla frontiera ceca, ancora in funzione.
I SINTOMI, I LEGAMI SOCIALI, LE AZIONI SANITARIE Proseguendo nel viaggio letterario vale la pena di leggere, nel paragrafo 49 del II libro di Tucidide, la descrizione della comparsa dei sintomi e dello svilupparsi della malattia “Ma il contagio non tardò troppo a dilagare nella città alta, e il numero dei decessi ad ampliarsi, con una progressione sempre più irrefrenabile……Correva quell'anno, a confessione universale, immune sovra tutti da malattie; o se qualcuno era di prima da qualche morbo afflitto, tutti si risolvevano in questo. Gli altri poi senza alcuna precedente cagione, ma interamente sani, erano all'improvviso compresi da veementi caldure al capo, da rossezza e infiammazione d'occhi, e nell'interno la gola e la lingua diventavano tostamente sanguigne, e mandavano alito puzzolente fuori dell'usato. Dopo di che sopravveniva starnutazione e raucedine, ed in breve il male calava al petto con tosse gagliarda: e qualora si fosse fitto sulla bocca dello stomaco lo sovvertiva, e conseguitavano tutte quelle secrezioni di bile, che da' medici hanno il loro nome, con grandissimo travaglio. Moltissimi ancora erano attaccati da un singhiozzo vuoto che dava forti convulsioni, le quali, a cui subito, a cui molto più tardi cessavano. L'esterno del corpo non era a toccare molto caldo, né pallido; ma rossastro, livido e gremito di pustulette ed ulceri, mentre le parti interne erano in tal bruciore che i malati non potevano sopportare d'avere indosso né i vestiti né le biancherie più fini, ma solo di star nudi. Recavansi a gran diletto tuffarsi nell'acqua fredda; di che molti de' meno guardati, tormentati da sete incontentabile, si gettarono nei pozzi: ed erano ridotti a tale che profittava egualmente il molto e il poco bere, travagliati incessantemente da smania inquieta e da vegghia continua. Ciò nonostante finché la malattia era nel suo colmo, il corpo non languiva, ma contro ogni credere durava gl'incomodi, talché i più, o erano da interno calore consumati nel nono o settimo giorno, avendo ancora qualche residuo di forza, o se pur scampavano, scendendo il morbo nel ventre, si faceva grande esulcerazione con sopravvenimento di diarrea immoderata, intanto ché poi la maggior parte morivano di debolezza. Perocché il male, fisso prima nel capo, incominciando di sopra discorreva per tutto il corpo; e se vi era chi superasse codesti più fieri malanni; almeno le estreme parti indicavano d'essere state comprese dal morbo, il quale prorompeva sino nelle vergogne e nel sommo delle mani e dei piedi; e molti guarivano perdendo affatto queste parti ed anche gli occhi. In altri la convalescenza era immediatamente seguita da smemoraggine di ogni cosa egualmente, a segno che non riconoscevano né sé stessi, né gli amici. ….. I medici nulla potevano, per fronteggiare questo morbo ignoto, che tentavano di curare per la prima volta. Ne erano anzi le vittime più frequenti, poiché con maggiore facilità si trovavano esposti ai contatti con i malati. Ogni altra scienza o arte umana non poteva lottare contro il contagio. Le suppliche rivolte agli altari, il ricorso agli oracoli e ad altri simili rimedi riuscirono completamente inefficaci: desistettero infine da ogni tentativo e giacquero, soverchiati dal male.” Nulla manca, nemmeno, nel raffronto col presente, il lento manifestarsi della virulenza del morbo, l’impotenza iniziale, ne’ il richiamo al rischio dell’esposizione per i medici. Più cruda la descrizione di Lucrezio, nel VII libro del De rerum natura, nel rimando al testo di Tucidide, ma con toni macabri e repellenti estranei allo stile sobrio e composto dello storico greco. Valgano per tutti i due versi in cui si attira l’attenzione sulla lingua stilla sangue “atque animi interpres manabat lingua cruore/ debilitata malis, motus gravis, aspera tactu” . Del resto ognuno sta nelle cose a suo modo:Lucrezio vuol dimostrare che l’essere umano, impotente davanti alla forza distruttrice della natura deve usare, per capire e combattere, la sua unica arma, "la ragione", che deve essere tanto più forte quanto più è abnorme la realtà.Boccaccio. A diciotto secoli di distanza da Tucicide, Boccaccio descrive la peste che nel 1348 infierisce su Firenze, con toni e particolari molto simili: pustulette, gavoccioli, il rapido dilagare del contagio e l’impotenza della medicina
“..nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi ed alle femine parimente o nell’anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela ed altre come uno uovo, ed alcuna piú ed alcuna meno, le quali li volgari nominavan «gavoccioli». E dalle due parti predette del corpo infra brieve spazio di tempo cominciò il giá detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere ed a venire: ed appresso questo, si cominciò la qualitá della predetta infermitá a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce ed in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade ed a cui minute e spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato ed ancora era certissimo indizio di futura morte, e cosí erano queste a ciascuno a cui venivano. A cura delle quali infermitá né consiglio di medico né vertú di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto: anzi, o che la natura del malore nol patisse o che l’ignoranza de’ medicanti, (de’ quali, oltre al numero degli scienziati, cosí di femine come d’uomini senza avere alcuna dottrina di medicina avuta mai, era il numero divenuto grandissimo), non conoscesse da che si movesse e per conseguente debito argomento non vi prendesse, non solamente pochi ne guerivano, anzi quasi tutti infra il terzo giorno dall’apparizione de’ sopraddetti segni, chi piú tosto e chi meno, ed i piú senza alcuna febbre o altro accidente morivano. E fu questa pestilenza di maggior forza per ciò che essa dagl’infermi di quella per lo comunicare insieme s’avventava a’ sani, non altramenti che faccia il fuoco alle cose secche o unte quando molto vi sono avvicinate. E piú avanti ancora ebbe di male: ché non solamente il parlare e l’usare con gl’infermi dava a’ sani infermitá o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni e qualunque altra cosa da quegli infermi stata tócca o adoperata pareva seco quella cotale infermitá nel toccator trasportare.” Un balzo di tre secoli in avanti, cinque nella cronologia della scrittura del romanzo, ed ecco come Manzoni affronta la descrizione del manifestarsi del male, chiamando bubboni le enfiature che denunciano la infezione interna e descrivendo nei dettagli l’accelerazione della malattia “ Ma sul finire del mese di marzo, cominciarono, prima nel borgo di porta orientale, poi in ogni quartiere della città, a farsi frequenti le malattie, le morti, con accidenti strani di spasimi, di palpitazioni, di letargo, di delirio, con quelle insegne funeste di lividi e di bubboni; morti per lo più celeri, violente, non di rado repentine, senza alcun indizio antecedente di malattia.” E, due pagine dopo, al capitolo XXXIII, è don Rodrigo a contrarre la peste, ad avere incubi e a fare un sogno in cui addirittura compare anche fra’ Cristoforo, a rappresentare la paura del giudizio e la colpa “Camminando però, sentiva un mal essere, un abbattimento, una fiacchezza di gambe, una gravezza di respiro, un’arsione interna, che avrebbe voluto attribuir solamente al vino, alla veglia, alla stagione. Non aprì bocca, per tutta la strada; e la prima parola, arrivati a casa, fu d’ordinare al Griso che gli facesse lume per andare in camera. Quando ci furono, il Griso osservò il viso del padrone, stravolto, acceso, con gli occhi in fuori, e lustri lustri; e gli stava alla lontana: perché in quelle circostanze, ogni mascalzone aveva dovuto acquistar, come si dice, l’occhio medico. E poco più avanti” Insieme si sentiva al cuore una palpitazion violenta, affannosa, negli orecchi un ronzìo, un fischìo continuo, un fuoco di dentro, una gravezza in tutte le membra, peggio di quando era andato a letto. Esitò qualche momento, prima di guardar la parte dove aveva il dolore; finalmente la scoprì, ci diede un’occhiata paurosa; e vide un sozzo bubbone d’un livido paonazzo”. Quanto ai legami sociali, improntati in Tucidide ad una solidarietà e volontà di soccorso che diffonde la malattia “Inoltre la circostanza che, nel desiderio di scambiarsi cure ed aiuti, i rapporti reciproci s’intensificavano, e la gente moriva, come le pecore. Era questa la causa della enorme mortalità. Chi per paura rifiutava ogni contatto, periva solo. Famiglie al completo furono distrutte per mancanza di chi fosse disposto a curarle. Chi invece coltivava amicizie e relazioni, perdeva egualmente la vita: quelli in particolare che tenevano a far mostra di nobiltà di spirito. Mossi da rispetto umano, si recavano in visita dagli amici, disprezzando il pericolo, quando perfino gli intimi trascuravano la pratica del lamento funebre sui propri congiunti, abbattuti e vinti sotto la sferza della calamità. Una compassione più viva, su un morto o verso un malato, dimostravano quelli che ne erano scampati vivi: conoscevano di persona l’intensità del soffrire e si facevano forti d’un sentimento di sicurezza. Boccaccio porta all’attenzione la varietà di reazioni al dilagare del morbo e rileva la dissoluzione e l’abbrutimento dei legami sociali, processi che possono trovare il loro antidoto soltanto nel raffinato, colto e civile stare assieme, nella narrazione, come fanno i dieci giovani ritiratisi in villa, e come cerchiamo di fare noi adesso, chiusi nelle nostre case, intenti a scoprire la dimensione lenta del tempo, il piacere della lettura, dello scrivere, il sapore di gesti che l’abituale frenesia sorpassa e disconosce, la preghiera, anche, un colloquio, una narrazione con se stessi e con l’Altro. Il narrare, la parola, che è il nostro carisma più grande, combatte la peste dell’anima, l’ignoranza, la dimensione buia e cieca del vivere. Scrive Boccaccio:”Dalle quali cose e da assai altre a queste simiglianti o maggiori nacquero diverse paure ed imaginazioni in quegli che rimanevano vivi: e tutti quasi ad un fine tiravano assai crudele, ciò era di schifare e di fuggire gl’infermi e le lor cose; e cosí faccendo, si credeva ciascuno a se medesimo salute acquistato. Ed erano alcuni, li quali avvisavano che il viver moderatamente ed il guardarsi da ogni superfluitá avesse molto a cosí fatto accidente resistere: e fatta lor brigata, da ogni altro separati viveano, ed in quelle case ricogliendosi e racchiudendosi dove niuno infermo fosse e da viver meglio, dilicatissimi cibi ed ottimi vini temperatissimamente usando ed ogni lussuria fuggendo, senza lasciarsi parlare ad alcuno o volere di fuori, di morte o d’infermi alcuna novella sentire, con suoni e con quegli piaceri che aver poteano si dimoravano. Altri, in contraria oppinion tratti, affermavano, il bere assai ed il godere e l’andar cantando attorno e sollazzando ed il sodisfare d’ogni cosa all’appetito, che si potesse, e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima a tanto male: e cosí come il dicevano, il mettevano in opera a lor potere, il giorno e la notte ora a quella taverna ora a quella altra andando, bevendo senza modo e senza misura, e molto piú ciò per l’altrui case faccendo, solamente che cose vi sentissero che lor venissero a grado o in piacere. E ciò potevan far di leggeri, per ciò che ciascun, quasi non piú viver dovesse, aveva, sí come sè, le sue cose messe in abbandono, di che le piú delle case erano divenute comuni, e cosí l’usava lo straniere, pure che ad esse s’avvenisse, come l’avrebbe il proprio signore usate; e con tutto questo proponimento bestiale sempre gl’infermi fuggivano a lor potere. Ed in tanta afflizione e miseria della nostra cittá era la reverenda autoritá delle leggi, cosí divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta per li ministri ed esecutori di quelle, li quali, sí come gli altri uomini, erano tutti o morti o infermi o si di famiglie rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare; per la qual cosa era a ciascun licito quanto a grado gli era, d’adoperare. Molti altri servavano, tra questi due di sopra detti, una mezzana via: non istrignendosi nelle vivande quanto i primi né nel bere e nell’altre dissoluzioni allargandosi quanto i secondi, ma a sufficienza secondo gli appetiti le cose usavano e senza rinchiudersi andavano attorno, portando nelle mani chi fiori, chi erbe odorifere e chi diverse maniere di spezierie, quelle al naso ponendosi spesso, estimando essere ottima cosa il cerebro con cotali odori confortare, con ciò fosse cosa che l’aere tutto paresse dal puzzo de’ morti corpi e delle ’nfermitá e delle medicine compreso e puzzolente. Alcuni erano di piú crudel sentimento, come che per avventura piú fosse sicuro, dicendo niuna altra medicina essere contro alle pestilenze migliore né cosí buona come il fuggir loro davanti: e da questo argomento mossi, non curando d’alcuna cosa se non di sè, assai ed uomini e donne abbandonarono la propria cittá, le proprie case, i lor luoghi ed i lor parenti e le lor cose, e cercarono l’altrui o almeno il lor contado, quasi l’ira di Dio, a punire l’iniquitá degli uomini, con quella pestilenza non dove fossero procedesse, ma solamente a coloro opprimere li quali dentro alle mura della lor cittá si trovassero, commossa intendesse, o quasi avvisando, niuna persona in quella dover rimanere e la sua ultima ora esser venuta. E come che questi cosí variamente oppinanti non morissero tutti, non per ciò tutti campavano: anzi, intermandone di ciascuna molti ed in ogni luogo, avendo essi stessi, quando sani erano, esemplo dato a coloro che sani rimanevano, quasi abbandonati per tutto languieno. E lasciamo stare che l’un cittadino l’altro schifasse e quasi niun vicino avesse dell’altro cura ed i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano, era con sí fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava ed il zio il nepote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito, e che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano. Per la qual cosa a coloro, de’ quali era la moltitudine inestimabile, e maschi e femine, che infermavano, niuno altro sussidio rimase che o la caritá degli amici, e di questi fûr pochi, o l’avarizia de’ serventi li quali da grossi salari e sconvenevoli tratti servieno, quantunque per tutto ciò molti non fossero divenuti: e quegli cotanti erano uomini o femine di grosso ingegno, ed i piú, di tali servigi non usati, li quali quasi di niuna altra cosa servieno che di porgere alcune cose dagl’infermi addomandate o di riguardare quando morieno; e servendo in tal servigio, sé molte volte col guadagno perdeano.” La descrizione di Boccaccio mette in campo una vasta gamma di reazioni, il morbo diventa la cartina di tornasole della più intima essenza di ogni persona e della società, molti atteggiamenti li ritroviamo anche nelle nostre reazioni al coronavirus: la ritrovata intimità familiare, ad esempio, dove risulta però impossibile volere di fuori, di morte o d’ infermi, alcuna cosa sentire: le notizie, per tramite della televisione, del cellulare, di internet, entrano facilmente e forse isolarsi del tutto non è bene: da solo nessuno si salva. Fra le circostanze più nevralgiche del morbo, ieri come oggi, la questione delle sepolture, adesso senza funerali e cerimonie di addio: direttamente dal letto di medicina d’emergenza al crematorio: una benedizione e via, nei migliori dei casi. E, a seguire, a Bergamo, le file di bare trasferite presso altre regioni con i camion dell’esercito perché i cimiteri non hanno più spazi; a New York , a Manaus le fosse comuni. Situazioni e “soluzioni” che riecheggiano la cronaca di Boccaccio, anche per le accuse rivolte ai direttori di alcune RSA e alle Asl di non avere curato adeguatamente gli anziani ospiti, morti in numero spropositato. : Ed oltre a questo ne seguí la morte di molti che per avventura, se stati fossero aiutati, campati sarieno; di che, tra per lo difetto degli opportuni servigi, li quali gl’infermi aver non poteano, e per la forza della pestilenza, era tanta nella cittá la moltitudine di quegli che di dí e di notte morieno, che uno stupore era ad udir dire, non che a riguardarlo. Per che, quasi di necessitá, cose contrarie a’ primi costumi de’ cittadini nacquero tra coloro li quali rimanean vivi. Era usanza, sì come ancora oggi veggiamo usare, che le donne parenti e vicine nella casa del morto si ragunavano, e quivi con quelle che piú gli appartenevano piagnevano; e d’altra parte dinanzi alla casa del morto co’ suoi prossimi si ragunavano i suoi vicini ed altri cittadini assai, e secondo la qualitá del morto vi veniva il chericato, ed egli sopra gli omeri de’ suoi pari, con funeral pompa di cera e di canti, alla chiesa da lui prima eletta anzi la morte n’era portato. Le quali cose, poi che a montar cominciò la ferocitá della pestilenza, o in tutto o in maggior parte quasi cessarono ed altre nuove in lor luogo ne sopravvennero. Per ciò che, non solamente senza aver molte donne da torno morivan le genti, ma assai n’eran di quegli che di questa vita senza testimonio trapassavano: e pochissimi erano coloro a’ quali i pietosi pianti e l’amare lagrime de’ suoi congiunti fossero concedute, anzi in luogo di quelle s’usavano per li piú risa e motti e festeggiar compagnevole; la quale usanza le donne, in gran parte posposta la donnesca pietá per salute di loro, avevano ottimamente appresa. Ed erano radi coloro i corpi de’ quali fosser piú che da un diece o dodici de’ suoi vicini alla chiesa accompagnati; li quali non gli orrevoli e cari cittadini, ma una maniera di beccamorti sopravvenuti di minuta gente, che chiamar si facevan «becchini», la quale questi servigi prezzolata faceva, sottentravano alla bara, e quella con frettolosi passi, non a quella chiesa che esso aveva anzi la morte disposto, ma alla piú vicina le piú volte il portavano, dietro a quattro o a sei cherici con poco lume, e talfiata senza alcuno; li quali con l’aiuto de’ detti becchini, senza faticarsi in troppo lungo uficio o solenne, in qualunque sepoltura disoccupata trovavano piú tosto il mettevano. Della minuta gente, e forse in gran parte della mezzana, era il ragguardamento di molto maggior miseria pieno: per ciò che essi, il piú o da speranza o da povertá ritenuti nelle lor case, nelle lor vicinanze standosi, a migliaia per giorno infermavano, e non essendo né serviti né aiutati d’alcuna cosa, quasi senza alcuna redenzione tutti morivano. Ed assai n’erano che nella strada publica o di dí o di notte finivano, e molti, ancora che nelle case finissero, prima col puzzo de’ lor corpi corrotti che altramenti facevano a’ vicini sentire sé esser morti: e di questi e degli altri che per tutto morivano, tutto pieno. Era il piú da’ vicini una medesima maniera servata, mossi non meno da tema che la corruzione de’ morti non gli offendesse, che da caritá la quale avessero a’ trapassati. Essi, e per se medesimi e con l’aiuto d’alcuni portatori, quando averne potevano, traevano delle lor case li corpi de’ giá passati, e quegli davanti alli loro usci ponevano, dove, la mattina spezialmente, n’avrebbe potuti veder senza numero chi fosse attorno andato: e quindi fatte venir bare, e tali furono che per difetto di quelle sopra alcuna tavola ne ponieno. Né fu una bara sola quella che due o tre ne portò insiememente; né avvenne pure una volta, ma se ne sarieno assai potute annoverare di quelle che la moglie ed il marito, li due o tre fratelli, o il padre ed il figliuolo, o cosí fattamente ne contenieno. Ed infinite volte avvenne che, andando due preti con una croce per alcuno, si misero tre o quattro bare, da’ portatori portate, di dietro a quella: e dove un morto [p. 16 modifica]credevano avere i preti a sepellire, n’avevano sei o otto, e talfiata piú. Né erano per ciò questi da alcuna lagrima o lume o compagnia onorati, anzi era la cosa pervenuta a tanto, che non altramenti si curava degli uomini che morivano, che ora si curerebbe di capre; per che assai manifestamente apparve che quello che il naturale corso delle cose non avea potuto con piccoli e radi danni a’ savi mostrare doversi con pazienza passare, la grandezza de’ mali eziandio i semplici far di ciò scorti e noncuranti. Alla gran moltitudine de’ corpi mostrata, che ad ogni chiesa ogni dí e quasi ogni ora concorreva portata, non bastando la terra sacra alle sepolture, e massimamente volendo dare a ciascun luogo proprio secondo l’antico costume, si facevano per li cimiteri delle chiese, poi che ogni parte era piena, fosse grandissime nelle quali a centinaia si mettevano i sopravvegnenti: ed in quelle stivati, come si mettono le mercatantie nelle navi a suolo a suolo, con poca terra si ricoprieno infino a tanto che della fossa al sommo si pervenia.” Non manca di certo in Manzoni l’attenzione ai legami come quando sottolinea negativamente la mancanza di carità nel Griso che, per appropriarsi dei beni di don Rodrigo, non si perita di consegnare il padrone ai monatti, nelle mani dei quali, avendo contratto la peste, cade egli tesso il giorno dopo, morendo sul carro prima di giungere al lazzeretto. Da buon storico si sofferma a lungo sul comportamento delle autorità politiche e sanitarie, che risultano incapaci a gestire il problema. Intanto va detto che l’epidemia andò a braccetto con la carestia che, dopo due anni di insistenza nella popolazione, ne favorì la diffusione; da mettere in conto, come motore del contagio, anche la guerra per la successione di Mantova che vedeva la Spagna opposta alla Francia. Una guerra che,” sia detto qui incidentalmente, dopo aver portato via, senza parlar de’ soldati, un milion di persone, a dir poco, per mezzo del contagio, tra la Lombardia, il Veneziano, il Piemonte, la Toscana, e una parte della Romagna; dopo aver desolati, come s’è visto di sopra, i luoghi per cui passò, e figuratevi quelli dove fu fatta; dopo la presa e il sacco atroce di Mantova; finì con riconoscerne tutti il nuovo duca, per escludere il quale la guerra era stata intrapresa.” Quanto alla carestia ricordiamo, dai banchi di scuola, l’assalto ai forni, la farina stipata nelle casse, nelle botti, nelle caldaie, i cadaveri con le bocche piene di erba masticata, l’ultimo pasto prima della morte, le pietanze di pane di riso impastato con orzo, segale e veccia, erbe di prato amare, cortecce d’albero condite con sale e acqua malsana. E come dimenticare la fanciulla scarna che rubava gli erbucci alla vaccherella magra stecchita, o il sollievo dei familiari di Tonio quando Renzo, invitandolo all’osteria, sottrae alla piccola polenta bigia la bocca più robusta? La malnutrizione abbassa le difese immunitarie e il fisico cede ben presto alla malattia. Conseguenza dei cambiamenti climatici( la piccola glaciazione aveva gelato i corsi dei fiumi pregiudicando le colture, gli eserciti avevano sottratto braccia alla terra e l’avevano saccheggiata), fu accettata come una inevitabile calamità, negata, in primis da don Rodrigo. Scoppiata l’epidemia, non mancarono indecisioni e incertezze come non sono mancate nel caso del covid 19. Interventi mirati e tempestivi avrebbero evitato, allora ed oggi, l’affollamento del lazzaretto, degli ospedali e dei cimiteri. Dalla cronaca della peste di Manzoni: il 14 novembre 1629 il Tadino ed un inviato del Tribunale di Sanità ricevono l'ordine di presentarsi al governatore di Milano, Ambrogio Settala, per esporgli la situazione riguardo all'epidemia, cosa che fanno illustrando proposte di intervento. Il governatore si dice molto addolorato, tuttavia le preoccupazioni della guerra sono più pressanti e perciò non intende prendere alcun provvedimento. Pochi giorni dopo, il 18 novembre, lo stesso governatore indice pubblici festeggiamenti per la nascita dell’erede al trono di Spagna, il primogenito di Filippo IV, senza curarsi del rischio del contagio, come se i tempi fossero assolutamente normali.
Anche la popolazione di Milano sembra disinteressata e nessuno crede che le vittime siano da attribuire al terribile morbo, anzi, quelli che parlano di peste sono derisi o additati al pubblico disprezzo; lo stesso vale per i magistrati e solo il cardinal Federico Borromeo esorta i parroci a vigilare. Persino il Tribunale di Sanità è lento nell'operare come lo era stato nel prendere informazioni e prova ne sia il fatto che la grida che prescrive il cordone sanitario intorno a Milano, decisa il 30 ottobre, viene stilata solo il 23 novembre e pubblicata il 29 dello stesso mese, quando la peste è già entrata in città. Il popolo non è ancora del tutto convinto, così, per fugare ogni dubbio, il Tribunale di Sanità ricorre a un macabro espediente: durante le feste della Pentecoste, quando grande è l’afflusso al cimitero di San Gregorio per pregare per i morti dell’epidemia del 1576, nell'ora di maggior frequentazione viene condotto un carro con i corpi di un'intera famiglia: "Era in quel giorno morta di peste, tra gli altri, un'intera famiglia. Nell'ora del maggior concorso, in mezzo alle carrozze, i cadaveri di quella famiglia furono, d'ordine della Sanità, condotti al cimitero suddetto, sur un carro, ignudi, affinché la folla potesse vedere in essi il marchio manifesto della pestilenza. Un grido di ribrezzo, di terrore, s'alzava per tutto dove passava il carro; un lungo mormorìo regnava dove era passato; un altro mormorìo lo precorreva. La peste fu più creduta: ma del resto andava acquistandosi fede da sé, ogni giorno di più; e quella riunione medesima non dové servir poco a propagarla" I punti di contatto sarebbero già abbastanza, ma che dire della calata dei lombardi, dei parmensi, dei veneti dai focolai nelle seconde case sulla costa da Carrara alla Versilia, fattore scatenante del contagio in corso, riconosciuto anche dagli esperti della task force regionale, comportamento dissennato che replica, anche nelle condizioni sociali dei fuggitivi, agiati borghesi oggi aristocratici allora, un identico impulso? Peggiorativo il fatto che adesso abbiano potuto farlo in assenza di disposizioni contrarie che confermano come oggi, per una complessità di interessi, la gravità dell’epidemia sia stata in un primo momento sottovalutata . Nel 1630 le disposizioni di legge furono invece disattese, Manzoni scrive“Sono partiti prima della mezzanotte. Nonostante le gride che proibivano di lasciare la città e minacciavano le solite pene severissime, come la confisca delle case e di tutti i patrimoni, furono molti i nobili che fuggirono da Milano per andarsi a rifugiare nei loro possedimenti in campagna.”In questo contesto di degrado, irresponsabilità e sofferenza, si distingue, come già evidenziato, il Cardinal Borromeo che mette a disposizione beni e sostanze per soccorrere affamati ed ammalati. La carestia del 1630 colpì duramente anche a seguito della carestia che, debilitando i corpi, facilitava il contagio e il decorso. Il Cardinale “ Aveva scelto sei preti ne’ quali una carità viva e perseverante fosse accompagnata e servita da una complessione robusta; gli aveva divisi in coppie, e ad ognuna assegnata una terza parte della città da percorrere, con dietro facchini carichi di vari cibi, d’altri più sottili e più pronti ristorativi, e di vesti. Ogni mattina, le tre coppie si mettevano in istrada da diverse parti, s’avvicinavano a quelli che vedevano abbandonati per terra, e davano a ciascheduno secondo il bisogno. Taluno già agonizzante e non più in caso di ricevere alimento, riceveva gli ultimi soccorsi e le consolazioni della religione. Agli affamati dispensavano minestra, ova, pane, vino; ad altri, estenuati da più antico digiuno, porgevano consumati, stillati, vino più generoso, riavendoli prima, se faceva di bisogno, con cose spiritose. Insieme, distribuivano vesti alle nudità più sconce e più dolorose.” E quando nel lazzaretto la situazione divenne ingovernabile il Tribunale e i magistrati pensarono di affidarne la guida a due padri cappuccini: Padre Felice Casati e padre Michele Pozzobonelli. Con fra’ Cristoforo sono esempi di una dedizione assoluta che si prodigò nella cura dei corpi e delle anime attendendo anche alla cucina, alla lavanderia e a tutte le più minute necessità. L’incontro fra Renzo e Don Rodrigo morente, padre Felice che, con la corda al collo, chiede perdono per sè e per tutti i suoi compagni, “scelti all’alto privilegio” di servir Cristo negli appestati, danno la misura dell’importanza della presenza cristiana in un luogo di sofferenza estrema. E, sempre attingendo a “I promessi sposi”, di estrema attualità la gestione dell’epidemia, adesso pandemia, da parte delle autorità preposte ”Il protofisico Lodovico Settala, che, non solo aveva veduta quella peste, ma n’era stato uno de’ più attivi e intrepidi, e, quantunque allor giovinissimo, de’ più riputati curatori; e che ora, in gran sospetto di questa, stava all’erta e sull’informazioni, riferì, il 20 d’ottobre, nel tribunale della sanità, come, nella terra di Chiuso (l’ultima del territorio di Lecco, e confinante col bergamasco), era scoppiato indubitabilmente il contagio. Non fu per questo presa veruna risoluzione, come si ha dal Ragguaglio del Tadino. Ed ecco sopraggiungere avvisi somiglianti da Lecco e da Bellano. Il tribunale allora si risolvette e si contentò di spedire un commissario che, strada facendo, prendesse un medico a Como, e si portasse con lui a visitare i luoghi indicati. Tutt’e due, “ o per ignoranza o per altro, si lasciorno persuadere da un vecchio et ignorante barbiero di Bellano, che quella sorte de mali non era Peste ma, in alcuni luoghi, effetto consueto dell’emanazioni autunnali delle paludi, e negli altri, effetto de’ disagi e degli strapazzi sofferti, nel passaggio degli alemanni. Una tale assicurazione fu riportata al tribunale, il quale pare che ne mettesse il cuore in pace. Ma arrivando senza posa altre e altre notizie di morte da diverse parti, furono spediti due delegati a vedere e a provvedere: il Tadino suddetto, e un auditore del tribunale. Quando questi giunsero, il male s’era già tanto dilatato, che le prove si offrivano, senza che bisognasse andarne in cerca”. Nelle numerose pagine che Manzoni dedica dei Promessi alla peste, la più commovente è sicuramente quella della “madre di Cecilia”, straziante per la tragica compostezza del comportamento della donna, inusuale per il comportamento umano dei monatti, tragica per quel cadaverino composto sul mucchio scomposto di altri cadaveri “Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’ cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Nè la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, chè, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un sentimento. Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia,con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, “no!” disse: “non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete.” Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: “promettetemi di non levarle un filo d’intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così. Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l’inaspettata ricompensa, s’affaccendò a far un po’ di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: “addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri.” Poi voltatasi di nuovo al monatto, “voi,” disse, “passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola.” Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato.” Esempio di caldo amore, quello della mamma di Cecilia, che prepara e accompagna la figlia alla soglia dell ‘ultimo viaggio eprepara il suo e quello dell’altra creatura. Ai deceduti nei reparti di terapia intensiva il coronavirus ha sottratto anche l’accompagnamento e i riti del lutto. la salma viene avviata direttamente al crematorio ( per evitare l’affollamento dei cimiteri), una benedizione alla bara per i credenti, niente funerale, niente messa, nessun saluto da parte di familiari e di amici, sottrazione nella sottrazione, che aumenta il dolore.
LE CONSEGUENZE Di tutti i temi fin qui trattati narra anche Camus nel suo romanzo del 1947, “La peste”, dove l’epidemia, contrariamente ai testi citati in precedenza, è immaginata. La vicenda è ambientato negli anni Quaranta ad Orano, in Algeria. Le pagine che trascrivo potrebbero essere lette su un quotidiano di oggi, primavera 2020 “I medici e gli infermieri, sottoposti a un impegno gravosissimo, non dovevano immaginare un impegno ancora maggiore. Dovevano soltanto continuare con regolarità, se così si può dire, quel lavoro disumano. Le forme polmonari dell’infezione che già si erano manifestate ora si moltiplicavano ai quattro angoli della città, quasi che il vento accendesse e alimentasse incendi nel petto degli abitanti. I malati vomitavano sangue e morivano molto più in fretta. Con questa nuova forma dell’epidemia, la contagiosità rischiava di aggravarsi. I pareri degli specialisti al riguardo, a dire il vero, erano sempre stai contrastanti. Tuttavia, per maggiore sicurezza, il personale sanitario continuava a respirare sotto mascherine di garza sterile. Sta di fatto che al malattia avrebbe dovuto estendersi. Ma poiché i casi di peste bubbonica diminuivano, il bilancio si pareggiava. Non mancavano però altri motivi di preoccupazione, a seguito delle difficoltà crescenti di approvvigionamento. Queste avevano favorito la speculazione e alcuni prodotti che scarseggiavano nel mercato legale si offrivano ora a prezzi astronomici. Le famiglie povere si ritrovavano così in grandi ristrettezze, mentre la famiglie ricche non mancavano pressoché di nulla. Mentre la peste, con la sua efficace imparzialità, avrebbe dovuto rafforzare l’uguaglianza fra i nostri concittadini, per il normale effetto degli egoismi rendeva invece più acuto nel cuore degli uomini il sentimento d’ingiustizia. Rimaneva, certo, l’ineccepibile uguaglianza della morte, ma questa nessuno la voleva. Sicché i poveri che soffrivano la fame pensavano con crescente rimpianto alle città e alle campagne vicine, dove la vita era libera e il pane costava poco. Dal momento che non era loro assicurato il cibo,avevano la sensazione, peraltro poco ragionevole, che avrebbero dovuto essere autorizzati ad andarsene. Tanto che ormai girava un motto che a volte si leggeva scritto sui muri o che, altre volte, era gridato al passaggio del prefetto: “Pane o libertà”. Questa formula ironica era il segnale per alcune manifestazioni subito represse, ma il cui carattere di gravità non sfuggiva a nessuno. I giornali, va da sé, si attenevano alla consegna di ottimismo a ogni costo che avevano ricevuto. A leggerli, quello che caratterizzava la situazione era “il toccante esempio di calma e di sangue freddo”offerto dalla popolazione. Ma in una città chiusa su se stessa, dove non c’era niente che potesse restare segreto, nessuno si faceva illusioni sull’”esempio” dato dalla comunità. E per avere un esempi della calma e del sangue freddo di cui si parlava, bastava entrare in un luogo di quarantena o in uno dei campi di isolamento organizzati dall’amministrazione.” Nel romanzo di Camus è soltanto Orano ad essere colpita dalla peste, il Covid 19 fa invece oggi del mondo un unico campo di quarantena, una condizione in cui non avremmo mai creduto di sperimentare, dimentichi o gonfi di presupponenza. Orano fu infine liberata dal morbo e fu grande baldoria. Il dottor Rieux, mentre il cielo era illuminato dai fuochi di artificio, decise di redigere il resoconto che qui si conclude, per non essere fra coloro che tacciono, per testimoniare a favore degli appestai, per lasciare almeno un ricordo delle ingiustizie e delle violenze che erano state fatte loro, e per dire semplicemente quel che si impara durante i flagelli, che ci sono più cose da ammirare che da disprezzare.
Anna Guidi
06-04-2020 - 16:04:14 Molto bello il parallelismo tra la situazione attuale ed altre importanti epidemie del passato... Assolutamente toccante l'episodio dell'infanta Cecilia. |
08-04-2020 - 20:04:35 Bellissima analisi dell'attuale situazione paragonata ad alcuni dei più importanti testi letterari. Ovviamente quello che ricordo meglio sono I promessi sposi del Manzoni, che lei ha saputo egregiamente spiegare e farmi apprezzare. |
01-05-2020 - 15:05:02 Interessanti le analogie tra le epidemie che hanno segnato i tempi passati con la pandemia che sta sconvolgendo il nostro tempo, soprattutto per quanto concerne il sentire e l’agire comune. Le riflessioni sulla ricorrenza di alcune costanti provocano sentimenti contrastanti: drammatici per lo più, ma, paradossalmente, anche quasi di ‘conforto’, per qualcosa di cui è già stato scritto e narrato, e ‘superato’, non senza dolorosi strascichi. Un’analisi esaustiva. |
01-05-2020 - 15:05:20 Interessanti le analogie tra le epidemie che hanno segnato i tempi passati con la pandemia che sta sconvolgendo il nostro tempo, soprattutto per quanto concerne il sentire e l’agire comune. Le riflessioni sulla ricorrenza di alcune costanti provocano sentimenti contrastanti: drammatici per lo più, ma anche di conforto, per qualcosa di cui è già stato scritto e narrato, e dunque ‘superato’, non senza dolorosi strascichi. Un’analisi esaustiva. |
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