La cronaca del pellegrinaggio è stesa dal Santini stesso. La biografia del famoso pellegrino fornisce le coordinate storiche e personali in cui si colloca l'evento.
Vincenzo Santini ebbe i natali in Pietrasanta il 2 luglio 1807, due giorni prima della nascita a Nizza di Giuseppe Garibaldi. Vincenzo era il secondogenito del piccolo possidente e locandiere Celestino e di Maria Francesca Galleni di Seravezza, sorella della “nonna Lucia” di Giosuè Carducci.
Il nonno di Celestino, di nome Giovan Pietro (1715-1769), fu l’ultimo esponente della famiglia Santini di Trassilico nella Garfagnana “estense”, in quanto, provenendo da quella Cura, apprendiamo dall’Archivio Storico Comunale di Pietrasanta come convolasse a nozze il 14 febbraio 1734 in Pietrasanta, ove risiedeva, con Maria Caterina quondam Giovanni Viola del medesimo luogo.
Profondamente afflitto da burrascose pene d’amore, ma anche perché la famiglia non poteva mantenerlo agli studi, all’età di quindici anni, abbandonò la scuola letteraria pietrasantina dei padri Scolopi di Pietrasanta per avviarsi all’apprendistato della scultura in un laboratorio della vicina Seravezza, ove prese dimora presso la zia materna.
Vincenzo abita ancora in Seravezza nel 1824, allorquando, con altra zia materna di Pietrasanta compie il pellegrinaggio al santuario di San Pellegrino dell’Alpe, che minutamente descrive tra le sue memorie giovanili ed alla cui prima esposizione mi dedico in questo contributo.
Ma decisivo per la formazione umana e culturale dello scultore e futuro autore dei Commentarii versiliesi, fu un nuovo viaggio devozionale, questa volta verso la Città Eterna, in occasione dell’anno santo del 1825.
Difatti Vincenzo non fece ritorno a Pietrasanta, ma si fermò in Roma per dedicarsi alla statuaria presso la prestigiosa Accademia di San Luca sotto la guida degli scultori Bertel Thorvaldsen (1770-1844), danese, e del di lui allievo, il grande e desideratissimo Pietro Tenerani da Carrara (1789-1869), che a sua volta gli fu provvido amico.
A Roma, in particolare, frequentò con mente critica i luoghi della Romanità e del Cristianesimo; si erudì in storia e archeologia seguendo le lezioni del romano Antonio Nibby (1792-1839), promotore di un nuovo approccio allo studio dell’archeologia basato sull’indagine comparativa; fece conoscenza dei più grandi personaggi della cultura del tempo tra cui, non ultimo, l’archeologo Ippolito Rosellini (1800-1843), perfetto conoscitore delle antichità egizie.
Dopo le esperienze formative maturate nelle Accademie di Siena e di Firenze (1831-33) ed in Livorno (1837-1839), fece ritorno a Roma ove, il 4 gennaio 1842, intento a modellare nelle dimensioni monumentali la statua di Leopoldo II granduca di Toscana, fu vittima di un infortunio che gli cagionò l’amputazione – nella vigorosa età dei 35 anni – della gamba sinistra.
Impedito a proseguire l’arte della scultura, tornò a Pietrasanta; nella città natale, dal 1.° maggio 1843 e per oltre un trentennio, fu direttore e maestro di scultura della «Scuola di Belle Arti», istituita per saggia provvidenza del governo granducale allo scopo di indurre i giovani a rivolgersi all’«arte di lavorare il marmo con utile del Paese».
Nel contempo, si dedicò alla ricerca storica presso i pubblici e privati archivi e pubblicò, tra il 1858 ed il 1862, i Commentarii storici sulla Versilia centrale che gli avrebbero dato perenne fama di storiografo.
Per i suoi meriti artistici e scientifici ed il laborioso e proficuo impegno civico, il Governo del Re gli conferì nel 1873 l’onorificenza di cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia.
Cessato l’insegnamento presso la Scuola d’Arte, ove insegnò «con amore, con lode e con frutto», ricevette l’incarico di bibliotecario onorario della biblioteca comunale, aperta al pubblico il 14 marzo 1877; purtroppo non giunse all’inaugurazione, perché morì in Pietrasanta in conseguenza di un episodio di apoplessia polmonare il 1.° agosto 1876 nell’abitazione di via Stagio Stagi, adiacente a quella che lo vide nascere, nella centrale piazza del Duomo.
I solenni funerali si accompagnarono al tributo di grandi onori da parte di uomini dotti, letterati, scienziati, accademici, ma il luogo di sepoltura, nei pressi della cinta muraria orientale del cimitero urbano, rimase a lungo privo del suo nome, fino al punto di essere – qui – del tutto dimenticato e le sue ossa disperse in concomitanza dei successivi lavori di ampliamento.
Per disposizione testamentaria, gran parte dei suoi manoscritti di storia, archeologia ed arte, in larga misura tuttora inediti, nonché la copiosa raccolta epistolare intessuta con scultori, pittori ed illustri personaggi della cultura del tempo, in tutto «oltre quaranta grossi volumi», furono donati al comune di Pietrasanta e trasferiti dipoi all’archivio storico cittadino; col medesimo strumento, venne istituito un premio presso la Scuola di Belle Arti «sulla quarta parte del suo asse patrimoniale», per giovani segnalatisi nel disegno di ornato, di figura o di architettura.
Oltre ai Commentari storici sulla Versilia centrale sopra citati ed onorati da due ristampe anastatiche (1964-1965 e 1992), la bibliografia di Vincenzo Santini include uno studio storico sulla venerata immagine della Madonna del Sole (1860); un elogio artistico dello scultore Stagio Stagi (1866); un saggio archeologico sul Foro Traiano in Roma ed il suo artefice Apollodoro di Damasco dato alle stampe sul quotidiano «La Nazione» di Firenze (1871); una guida delle Alpi Apuane (1874); uno studio storico-statistico, infine, sulla segatura del marmo e le segherie nella regione (1874).
Quanto al pellegrinaggio a San Pellegrino dell'Alpe, sappiamo che ha inizio la domenica del 15 agosto 1824 e termina circa una diecina di giorni dopo.
La comitiva parte da Seravezza ed attraversa Ruòsina e Pontestazzemese alla volta di Stazzema con preliminare sosta di preghiera alla venerata chiesa della Madonna del Piastraio; quindi, incamminatasi lungo il sentiero che conduce alla Fonte di Moscoso e all’Alpe di Stazzema, raggiunge la Foce di Petrosciana, valico naturale e storico tra l’Alta Versilia e la Garfagnana.
Scendendo lungo la sinistra idrografica del torrente Caraglione prima, della Tùrrite poi, e superando i confini giurisdizionali tra il Granducato di Toscana (oggi comune di Stazzema) ed il Ducato di Modena (oggi comune di Fabbriche di Vergemoli), il gruppo dei pellegrini arriva quindi a Fornovolasco, ove è la dogana di Modena.
Dopo una sosta di due giorni presso parenti sui monti soprastanti Fornovolasco, con vita pastorale, caccia nelle selve e racconti dei vecchi al focolare, la comitiva riprende il viaggio per salire fino all’Eremo di Calomini, detto anche Santuario dell’Eremita, o Romitorio della Penna.
Finalmente, proseguendo il cammino «tra il sali e scendi» verso settentrione, lungo l’intero percorso della vallecola del torrente Grignetola, i pellegrini giungono alle porte di Castelnuovo di Garfagnana.
Il viaggio continua sulla strada per Pieve Fosciana e prosegue sull’erta e faticosa ascesa che conduce a San Pellegrino dell’Alpe, raggiunto alla sera del quinto giorno.
Al sesto giorno, praticate le devozioni che hanno motivato il pellegrinaggio e dopo aver fatto visita ai luoghi di quelle molte leggende che, comunque, vedono sempre San Pellegrino ed il Diavolo come protagonisti, ha inizio il viaggio di ritorno, con percorrenza a ritroso del medesimo itinerario dell’andata.
Durante la narrazione, l’Autore non indica i giorni e l’anno in cui si svolge il suo pellegrinaggio: riferisce solo che avvenne di agosto; ma nelle successive pagine del manoscritto, ha inizio la descrizione di un nuovo viaggio di Vincenzo, quello che lo porterà a Roma in concomitanza dell’Anno Santo 1825; è pertanto con certezza che si può collocare quello a San Pellegrino nel 1824.
Inoltre, dal transito della comitiva entro Stazzema nel corso di una festa di paese, attraverso una «piazza ove si trovò una moltitudine di gente a ballare, e ciò forse perché era domenica sera», ci induce ad arguire che l’euforia degli abitanti fosse dovuta alla festa di Santa Maria Assunta, titolare della locale pieve che, nel 1824, cade infatti di domenica.
Cronaca del pellegrinaggio a San Pellegrino dell’Alpe
Sommario
1.° giorno: da Seravezza all’Alpe di Stazzema – 2.° giorno: da Stazzema ai monti sopra Fornovolasco – 3.° giorno: la caccia nelle selve e i racconti dei vecchi al focolare – 4.° giorno: vita pastorale coi cugini – 5.° giorno: alla volta di San Pellegrino, transitando per l’eremo di Calomini, Castelnuovo Garfagnana e Pieve Fosciana – 6.° giorno: devozioni nella chiesa di San Pellegrino; il diavolo e San Pellegrino; inizia il viaggio di ritorno, con sosta all’eremo di Calomini – 7.° giorno: una giornata di sosta ai casolari dei pastori – 8.° giorno: paurosi temporali – Giorni seguenti: rientro a Seravezza.
Primo giorno: da Seravezza all’Alpe di Stazzema
[15 agosto 1824, domenica]
Giunti all’agosto, si stabilì un viaggio che ora prenderò a descrivere, benché in avanti e specialmente da Fanciullo n’avessi fatti moltissimi sempre con mio Padre poiché mi veniva a prendere a Serra-Vezza e perché stavo bene in gambe mi faceva fare spropositati giri col cavallo di San Francesco: vedevo città, terre, castelli, ville, campagne, fiumi, monti e tante altre opere della natura e degli uomini che niente mi recavano maraviglia, perché niente conoscevo ed ero condotto come un ragazzaccio.
Una sera adunque di quelle bellissime dell’estate, mentre la Luna era già sorta dall’Orizzonte, arrivò una mia Zia da Pietra-Santa, sorella della Madre, con un altro uomo verso un ora di notte a Serra-Vezza e mi disse: “Vincenzo voglio che andiamo a San Pellegrino”; io che cercavo di porre l’ultima mano agli scoramenti, perché mi uscisse del tutto di mente quel pensiero che mi affliggeva, tutto contento ripetei “Andiamo”; mi allestii un poco da mangiare ed una zucchetta di vino (cosa che mi era stata sempre consueta in tutti i viaggi intrapresi) ed alcuni danari, partimmo di Serra-Vezza e ci diressemo subito verso il Settentrione lungo la sponda destra del Serra camminando sempre trai monti.
Si attraversò il villaggio di Rosina, due miglia circa lungi da Serra-Vezza e continuammo il nostro viaggio alla volta della Garfagnana: quanto mi era dilettevole appena posso esprimerlo, poiché camminavamo lungo la ripa del Serra-Vezza rinchiusi dai monti che ora ti facevan veder quell’Astro Luminoso dalle sue cime, ora te lo cuoprivano, i castagni così opachi rendevano un fresco di Paradiso, e le loro ombre ci recavano strane idee: vedevamo molti villaggi sparsi sulle montagne rischiarati dalla luna, osservavamo i ravaneti dei marmi che ci parevano tanti panni imbiancati stesi al sole; qualche lumicino che si vedeva sui monti la mia Zia l’attribuiva subito alla fantastica idea degli Streghi, qualche castello o casa diroccata dei bassi tempi, nera per la massa scura ove non riceveva luce, gli dava motivo di ragionar subito degli spettri ed altre sue fantasie; il che io né sapevo approvare, né disapprovare.
Si giunse tra queste cose al Ponte Stazzemese ove si bevve per gusto dell’acqua del fiume, che non lungi à la sorgente la quale è come una neve e che mi destò un appetito grandissimo: di qua osservai subitamente il monte Forato di faccia, cioè un gran foro nella cima delle Alpi di Stazzema che lascia vedere l’azzurro varco del cielo, e che è uno dei bei scherzi della madre natura.
Ivi terminava la via carrozzabile e la valle si divideva in due, attraversata da canali: a quella di settentrione sovrastava l’Apania, o il Mons Apuana degli antichi; quella poi verso oriente aveva a sinistra del canale il monte dove nei tempi scorsi si levava il mischio, o breccia di Serra-Vezza da basso, mentre ancora adesso nell’alto vi si leva il marmo ordinario; il monte tra questi due canali, il primo del Cardoso e l’altro delle Mulina detto, è quello ove è il villaggio e comune di Stazzema situato dalla parte che guarda mezzogiorno e celebre per essere stato la Patria di Tommaso Tommasi valente pittore.
Allora incominciossi a salire il monte che è quasi tutto marmo e nella metà della strada trovammo lunghi cunicoli ove si era cavato il marmo nei secoli scorsi, eran questi oscurissimi, e facevano [60] un grandissimo Eco la qual cosa dette di nuovo motivo agli spettri; quanto più c’alzavamo e tanto più si discoprivan novelle vallate tra i monti.
Si giunse alla mezza notte suonata ad una piccola chiesuola detta del Piastrajo, ove la Zia fece preci, e quindi poco dopo a Stazzema, ove trovammo subitamente la Chiesa, antica Pieve che per la sua Architettura pare dell’XI secolo e quindi si passò alla piazza ove si trovò una moltitudine di gente a ballare, e ciò forse perché era domenica sera.
Noi si proseguì però il nostro viaggio sempre in salita per giungere alla cima dell’Alpi dette di Stazzema per la strada che allora si mostrava quasi tutta nuda, benché presso il villaggio vi fossero orti e castagneti; si trovò la cava delle Lavagne e quindi seguitando avevano a mano destra la Grotta del Procinto che si trova descritta dal Mineralogico Targioni Tozzetti nei suoi “Viaggi in Toscana” come cima altissima di difficile accesso e con un acqua perenne in cima, ed invero vedendola così al chiaro della Luna, aveva un non so che di maraviglioso: si giunse finalmente sull’Alpi che avevamo fatto circa una quindicina di miglia.
Da quella bella altezza si osservano le gran vallate di tutti quegli altri Appennini, le borgate situate sul loro dorso, ove qualche lume risplendeva; si vedeva parte della direzione del Serra; alla nostra destra invece si vedeva quel monte Apuano altissimo, ma così vaga vista cominciò a togliercela la luna, la quale ormai si tuffava nell’onde.
Secondo giorno: da Stazzema ai monti sopra Fornovolasco
[16 agosto 1824, lunedì]
Allora noi, deposte le piccole bagaglie e rifocillatici alquanto, si posemo sdrajati sul suolo poiché si doveva scendere l’altra parte delle Alpi Stazzema ove la strada era pericolosissima, aspettando che facesse ritorno la bella aurora: ma un freddo così forte ci scosse di costà e, per non rimanere interizziti, fu duopo mettersi in camino all’oscuro ed incominciare a scendere con mani e piedi, e qualche volte il sedere, acciò non si pericolasse.
Quasi sull’uscio dei limiti Toscani, cominciossi a veder perdersi le stelle, e volteggiar le nubi verso Oriente, indizio che la bella Aurora andava già spargendo le sue rose, ed allora incominciarono a salutarla gl’uccelli col canto e noi a rallegrarci del pericolo passato nello scendere, ed ad osservare quei monti, quei boschi, quelle selve che ogni venti passi mutavano sempre d’aspetto, tanto erano varij.
Sui confini dello stato, trovammo una delle sorgenti del Serchio od Auser che nasce al di la dell’Alpi di Stazzema, opposta a quella del Serra-Vezza, la cui acqua era un gelo vero; allora, seguendo la valle che solcava questo ramo del Serchio, giunsemo dopo poche miglia ad una borgata detta Forno Volasco, ove è la dogana modanese e dove questo ramo dell’Auser fa una piccola, ma scherzosa caduta; si passò allora un ponte per andar dalla parte opposta che riguarda mezzodì, e si incominciò nuovamente a salire per andare alle possessioni di quell’uomo che era con noi, ove colà dovevamo prendere i figli della Zia per condurli ancor essi all’Alpe di San Pellegrino.
Dopo alcune miglia di salita, arrivammo sopra il culmine di un monte, ove di fronte avevamo l’Apania, in quella parte che si risguarda occidente; al settentrione involta tra le nubi, si vedea l’Alpe di San Pellegrino, ed all’oriente i monti sopra il Borgo di Lucca ed a mezzogiorno le spalle eran ricoperte da alcune cime di monti, detti di Sant’Anna. Ivi erano alcune case pastorali, quasi tutte ad un sol piano, bassissime, con immensi travi per reggere il soffitto, e sopra il tetto piastroni da strada e ciò per la neve ed il vento; di dentro eran tutte adornate dei rustici strumenti qua e là appesi, con alcuni letti ed un gran cammino che si teneva acceso specialmente quando era tramontato il Sole.
Come noi entrammo nelle abitazioni, ricevemmo molti complimenti da quei contadini che conoscevan la Zia e molte allegrie dai suoi figli; si ristorammo alquanto subitamente con del latte e poi si passò a dormire stanchi del viaggio e della notte: io mi tirai sopra novo odorifero fieno, dove pochissimo dormii.
Terzo giorno: la caccia nelle selve e racconti dei vecchi al focolare
[17 agosto 1824, martedì]
Dopo mezzo giorno mi alzai, ed andammo a mangiare: il nostro cibo fu una gran polenta di farina di castagne, con entro stupendo formaggio, e poi fogaccie - là detti castagnacci - della stessa, con entro della ricotta; e poi fu portato un gran piatto di latte quagliato con del pane, e la bevanda consisté in una limpidissima acqua, la qual bevuta fu duopo dir con Dante
Dopo ’l pasto à più fame che pria
Si prese poi il fucile ed incominciammo ad andare a caccia ove si prese alcuni piccoli uccelli che venivano a mangiar i frutti situati in un piano di una collina sopra il monte, dalla cui vetta a perpendicolo vi era d’altezza un buon pezzo; colti e mangiati alcuni di quei frutti trai quali trovai squisite ciriegie, e fichi si andò sopra quel precipizio a tirar giù dei sassi i quali, dopo molto rotolare, andevano nel già citato ramo di Serchio.
Fu fatto alquanto chiasso con quei miei cugini, vi si fece sera; e perciò facemmo ritorno a quei tugurii ove portammo dei frutti e delle cipolle stupende che fecemo cuocere sulla bragia, ci disponemmo allora attorno il fuoco, fu preparata la cena con minestra fatta in casa cotta nel majale salato; dopo pezzi di quel majale, pane nero agreste ma saporitissimo, erbe, e vino ma molto agro, dopo essersi satollati sempre intorno il focolare, alcuni di quei vecchi ci narrarono la loro primitiva età, i loro amori, e la loro pace non mai disturbata da nessuno; quindi descrissero parte della loro vita e specialmente nell’inverno che la neve li teneva perfino 3 mesi in casa rinchiusi, poiché alle volte era scesa in maniera che superava le piccole case, ed allora essi dalla finestra la prendevano e la struggevano tanto per i loro usi, quando per dar da bere alle bestie; che essi allora si occupavano in lavori di faggi, cioè di fusi, aspi, conocchi, mestole, schifi, punte e che il più della stagione stavano al tetto.
Cotesti discorsi quasi mi intenerivano, e quindi il pensiero scorreva sulla tessitrice amante, e pur esclamavo: “il fato non volle che ancor noi tessessimo questa”: vita da me tanto bramata che, lungi dalle cure del mondo, ancor adesso lascerei la penna per ritirarmi in quelle solitudini tanto piacevoli, come un giorno fece Senofonte il quale si ritirò nell’Elide, e Diocleziano che, abbandonata la porpora, passò a Salona, senza citar altri esempi.
Quando la notte ebbe steso il suo cupo velo, se ne andammo al riposo.
Quarto giorno: vita pastorale coi cugini
[18 agosto 1824, mercoledì]
Si alzammo di buona voglia ed io con un dei miei cugini, con alcune caprette e pecore, passammo in una macchia a pascerle, ove mi recava molto diletto il veder questi quadrupedi salir sulla cima di un albero e quindi dar dei trilli bellissimi nel girarsi per scendere. In queste macchie, che quasi si poteano chiamare quelle dell’età dell’Oro, si trovava molte nocciuole, Bacchini, Pilugnori, Uva selvatica, More ed altri frutti, per cui vi eran degli uccelli a cui noi tendevamo archetti e se ne prese diversi.
Verso mezzogiorno portammo l’armento a bevere in un canale, ove si provò a lavarsi, ma l’acqua era così ghiaccia che non si poté resistere.
Ritornammo di bel nuovo a pascolare e quindi, quando si incominciò ad osservare tramontare il sole, si fece ritorno al tugurio parando innanzi l’ovile; come fummo giunti dappresso alle capanne, trovammo gli altri che pur faceano ritorno dal pascolo ed ivi allora, all’ombra amenissima di castagni, ci assidevamo, ed io osservai con diletto il mungere il latte, e chiamar a nome ciascuno dei soprindicati animali.
Intanto coi cugini, che erano stati miei compagni di scuola, si incominciò a cantare il settimo canto del Tasso, le cui espressioni allora avevamo sotto gli occhi.
Si passò poi a cena: mentre sul mezzogiorno non avevamo mangiato che pane, formaggio e frutti selvatici, cibo squisito furono quelli uccelli che avevamo preso.
Quinto giorno: alla volta di San Pellegrino,
transitando per l’eremo di Calomini, Castelnuovo Garfagnana e Pieve Fosciana
[19 agosto 1824, giovedì]
Si andò subitamente a dormire e la mattina, un par d’ore avanti l’Aurora, si posimo in viaggio per l’Alpe: si scese nuovamente al fiume e passato che l’avemmo si salì finché fatta l’aurora si arrivò alla chiesa dell’Eremita ove è un immagine devota, e si seguitò il cammino sempre tra il sali, e scendi finché a mezzo giorno ci trovammo presso Castel Nuovo di Garfagnana, ove presso un frate ci refocillammo.
Si giunse al paese che à un aspetto di città, situato sopra di due rami di fiume molto nel basso che formano il Serchio, i quali danno agio a molte concie di pelli. Si trovò la piazza con una fonte di pietra di un lavoro bizzarro, ma molto bello; si passò sotto un arco ove si trovò la guardia, e che si credette il palazzo di Giustizia; si diressemo poi al Duomo, che à avanti una bella Piazza e quindi si passò un ponte altissimo e si trovò altre abitazioni, passate le quali eramo sulla via della Pieve.
Circa 2 miglia dopo, ci trovammo a questa Borgata, che si attraversò parimente: ci trovammo allora appie’ della montagna, ed incominciossi a salire da principio del monte si trovò molti castagneti, ma quando fummo alti si trovò deserto, cioè un monte non sassoso come l’Apania, ma come un prato segato tutto scosceso secondo l’andamento delle acque, qua e la per questi alti e bassi si vedevano piccolissime casette poco più dell’altezza di un uomo ricoperte di grossi lastroni e ciò perché il vento non porti via le tegole: ivi si rifugiano i Pastori nel tempo estivo poiché in altre stagioni è tutto ricoperto di neve. Vi dominava un vento fortissimo e freddo, cosicché quando si giunse alla Chiesa, eramo gelati come nelle tramontane d’Inverno.
La chiesa non ci apparì davanti, ma bensì un Isola di case assai alte ma ben fortificate con Barbacani si entrò in questa come in una Corsia coperta ove sotto trovavasi la Strada Regia che da Castel nuovo va a Modana. La si trovò una porta e si entrò in una competente Chiesa mentre davano la benedizione del Sacramento.
Era essa ad una sola nave con un altare in mezzo rinchiuso da cancelli ove, sopra, in una cassa riposano i corpi di San Pellegrino re di Scozia e di San Bianco la cui vita è incognita, coperto poi da un baldacchino.
Due altri altari sono appoggiati ai muri laterali, e sono di ordine Composito fatti di pietra, essa è ricoperta con incavallatura di immensi travi, ed à in fondo un orchestra.
Come fu data la benedizione e fattosi scuro un sagrestano chiamò le donne, e le mandò sulla citata orchestra, e gl’uomini li lasciò in Chiesa, e chiuse. Noi altri che eramo ivi rimasti ci appiattammo in un confessionario, ove un poco si dormì, ma poi fummo risvegliati dal freddo e si convenne passeggiare per tutta la Chiesa per riscaldarsi un poco allorché di fuori mugghiava un vento terribile.
La Zia che poi mi vedeva passeggiare solo mi domandò cosa avevo ed io gli dissi aver bisogno d’urinare per cui mi rispose esser nell’istesso caso; finalmente, non potendo più resistere, andai ad una cantora della porta della Chiesa e là mi sgravai; dopo poi trovai una porticina che metteva nel Cemeterio che se certamente prima la trovavo non avrei fatto ciò.
La Zia, che ella fece sull’Orchestra quel che io avevo fatto fatto urinò addosso a certuni che eran sotto per cui seguì uno scompiglio: poco tempo dopo, mentre passeggiavo, la corda del campanello che si suona quando entrano le messe l’avvolsi scherzando al piede di un vecchio che sdrajato sopra una panca dormiva lì sotto, esso non so come fosse mentre mi ero già ritirato in confessionario cadde a rotoloni e venne in mezzo della Chiesa, la qual caduta fu causa di [78] una scampanellata motivo per cui destossi tutta la gente credendo l’Aurora, non visto rotolato il vecchio eccitò le risa a tutti che tornarono ai loro posti. Dopo questo fatto quelle Lombarde dell’Orchestra si presero a cantar laudi che per effetto della loro pronunzia non potei caper cosa dicessero.
Sesto giorno: preghiere nella chiesa; Il diavolo e San Pellegrino; inizia il viaggio di ritorno
[20 agosto 1824, venerdì]
Fattosi appena giorno entrò la messa e mentre ci confessavamo una Signora da Pisa che era entrata nel Confessionario, allorché una Lumbarda che vi stava era uscita nel ritorno ebbe la garbatezza di pigliar questa Signora in una bracciata e cacciarla fuori dicendole: “Co’ fa qui Tosca”.
Fatte le devozioni, si uscì dalla Chiesa e si andò per una piazzetta che pareva un chiostro di Frati ove vendeasi per lo più devozioni; di là si passò così altre 2 miglia, e si andò al Giro sul colmo proprio del monte dove dicono che il Demonio desse uno schiaffo a San Pellegrino e lo facesse girar attorno per cui vi è un tondo senza erba dove corrono in ginocchio per devozione.
Di lassù si veggono molte città, e specialmente Firenze ma la nebbia quel giorno impediva ogni cosa ed il più che si distingueva era verso la riviera di Genova perché prendeva il sole di faccia; di là si vedeva benissimo l’Apania, ma bassina e si scorgeva la neve nei suoi concavi.
Lì poi era il massimo del freddo, e si riscaldammo ad alcuni fuochi che erano stati accesi; si tornò poi alla Chiesa, e rientrativi alquanto ci accingemmo a far ritorno.
Poco distante dalla Chiesa, nello scendere, fu presi alcuni pezzi di una croce che fanno di Faggio, e la piantano colà dopo di averla benedetta, della quale il passeggiero ne prende pezzi per devozione.
Continuando il viaggio si vide alcuni dragoni bene incappottati che, venendo da Modana, divergendo dalla via di Castel Nuovo, andando a passar dalla Tambura, cioè dietro l’Apania e l’Altissimo per sboccar poi presso il Frigido, fiume di Massa di Carrara, ove andavano per guarnigione; da questi si seppe notizia che la strada che noi percorrevamo nell’inverno vi sono uomini pagati è sbarrata da uomini appositamente pagati dal Governo; per essa scendemmo e traversammo un altra volta la Pieve ove si osservò la Chiesa assai bella, e poscia Castel Nuovo, e ristoratisi alquanto ci diressemo verso l’Eremita.
Cammin facendo, si trovò degli archetti con degli uccelli tra i quali ancora un’Agazza: ce ne approfittammo, e li portammo via.
Sul tramontar del sole, non eramo molto lungi da questo Santuario e dalli monti ove era si osservava la città di Barga in lontananza bene illuminata dal Sole.
Si giunse costà poco dopo e visitammo l’immagine, e poi si passò a far da pranzo: con quelli uccelli ed una gallina, si fece una minestra stupenda e si misemo a mangiare nelle loggie di quel piccolo Romitorio con un gusto esquisito, poiché un poco stanchi ed un poco l’aria fresca ed il dilettoso sito molto romantico: poiché è questo Romitorio situato nell’angolo di un monte dominante la valle del fiume del Forno riguardante mezzodì: le due o tre case sono quasi scavate tutte nella rupe del monte come parte del Convento e della Chiesa.
Davanti avvi una piccola piazza sorretta da muraglioni e sotto di essi sono piane piantate d’ortaggio; su questa vi son due rozze fonti d’acqua freschissima; nella parte superiore del monte un folto bosco fa cornice alle fabbriche rimpetto vi sono altri monti selvosi, e verso oriente molto si estende la vista in montagne, e paesi in gran parte del territorio Lucchese.
Mangiato che avemmo, dopo essersi fatta notte, si andò a riposare nelle cellette degli Eremiti che una volta vi stavano, quasi tutte formate nella rupe.
Settimo giorno: una giornata di sosta ai casolari dei pastori
[21 agosto 1824, sabato]
La mattina ci alzammo che erano tuttora in cielo le stelle, e soprattutto luceva il pianeta di Venere e giunsemo alle abitazioni dei contadini che esse erano scomparse: là si passò il giorno nei consueti uffizi.
Ottavo giorno: Paurosi temporali
[22 agosto 1824, domenica]
Nel giorno appresso piovve e di casa godemmo la bella vista dei gonfi canali dei monti rincontro, e specialmente nell’Apania: ma disturbato alquanto andavo ripetendo col Sorrentino cantore:
E siccome il folgore non cade
in basso pian, ma sull’eccelse cime
poiché qui strepitavano in maniera terribile, specialmente io qui fuggìo.
Giorni seguenti: rientro a Seravezza
[ultima settimana di agosto 1824]
Pochi giorni dopo, fece bisogna ritornar a Sera-Vezza e, carichi di alcuni frutti di montagna, ribattemmo la via per cui eravamo venuti e quando fummo all’Alpi di Stazzema, vedei con orrore i precipizii percorsi in quella notte.
Ma continuando il viaggio si giunse a Serra-Vezza, alla vista del qual paese mandai un forte sospiro, perché mi scorse subito nella mente quello che per me non vi era più speranza.
La cronaca del manoscritto è trascritta dal manoscritto giacente presso la Biblioteca Governativa di Lucca :” Autobiografia del cavalier Vincenzo Santini “. Cartaceo in quarto , secolo XIX .[ Pagine] non numerate. Anche il manoscrittoè dell'autore, che fu scultore e storiografo della città di Pietrasanta”.
LUIGI SANTINI
04-03-2017 - 02:03:37 L'articolo, encomiabile frutto di una ricerca di archivio condotta con maestria, è occasione di preziosi spunti di riflessione sia in merito agli elementi biografici intimi ed umanissimi dell'autore dei Commentari a cui sempre fa riferimento chi si dedica a studi sulla Versilia, sia relativamente ai legami profondi fra la Garfagnana e la Versilia, ribaditi e consolidati da percorsi di fede e di pellegrinaggi. Infine: nome omen....Vincenzo e Luigi non sono legati da parentela ma da un destino veicolato dal nome che li induce ad amare la storia. |
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